Dopo il festival di Sanremo, un consiglio di lettura “musicale”: Vincenzina, Brambilla e il Dirigente. Lavoro e lavori nella musica leggera italiana dagli anni Sessanta a oggi,  di Azio Sezzi, edito da Aliberti.

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Un dato esce chiaro dal libro di Azio Sezzi: il lavoro in Italia non ha mai goduto, come non gode, di particolare simpatia, almeno nelle manifestazioni canore più popolari come il Festival di Sanremo. La stragrande maggioranza di noi del lavoro ha bisogno per vivere ma, se diamo retta ai testi delle 250 canzoni che l’autore ha raccolto, analizzato e classificato dagli anni Sessanta del Novecento a oggi il tema del lavoro è del tutto marginale. Una croce da sbarazzarsi il prima possibile, perché nella scala delle priorità individuali è l’amore a trionfare. Con buona pace di chi ritiene il lavoro un’occasione di emancipazione e libertà, seppur nella durezza delle condizioni di vita che spesso impone alle persone.

Il lavoro interpretato come schiavitù o come liberazione. Una durezza che non viene contrastata e semmai vinta da possibili lotte collettive ma dal caldo abbraccio dell’amata/o. Che ci fa dimenticare le tribolazioni lavorative o ci consola della mancanza del lavoro stesso.

Tuttavia non si può negare – seguendo l’Autore nelle sue conclusioni – che, nonostante di lavoro nella musica leggera italiana «si parla e si è parlato tutto sommato poco», vi sia una «pur vaga corrispondenza con quanto avviene nel mondo reale»: con tutti i limiti possibili la musica leggera «si sforza di seguire il “ciclo” sociale e dunque la “rivoluzione” del Sessantotto, l’impegno degli anni Settanta, il riflusso degli anni Ottanta, la lenta stabilizzazione degli anni Novanta, la complessità dei primi anni del terzo millennio» (pp. 134-135).

Sul tema del lavoro due canzoni (agli antipodi) ci vengono immediatamente alla memoria (sanremese): Chi non lavora non fa l’amore di Adriano Celentano (1970) ed Era bello il mio ragazzo di Anna Identici (1972). Nella classificazione che ci offre Sezzi la canzone di Celentano è collocata nella categoria «Interpretazione sentimentale [del lavoro]» mentre la seconda in quella sociale, rappresentata con più forti connotati politici da «cantautori» quali, ad esempio, Gualtiero Bertelli, Paolo Pietrangeli e Gianfranco Manfredi, che rispecchia però il nuovo clima sociale del Settantasette, al centro del quale ci sta sì il lavoro, ma per rifiutarlo.

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Adriano Celentano

«Al di là comunque dei giudizi di natura estetica o politica – scrive Sezzi – la canzone di Celentano dimostra l’assoluta impermeabilità del filone sentimentale alle pressioni di temi esterni, per quanto attuali o caldi come le lotte e le tensioni sociali del Sessantotto» (p. 32). La canzone del Molleggiato, ricordiamo, è cantata a Sanremo all’indomani dell’Autunno caldo (1969). Più drastico il commento di Gianni Borgna in un saggio del 1980: «Chi non lavora non fa l’amore!, una delle canzoni più reazionarie dell’ultimo decennio, è infatti un’accozzaglia sconnessa dei più vieti luoghi comuni della propaganda padronale» (G. BORGNA, La grande evasione. Storia del Festival di Sanremo, Savelli, Roma 1980, p. 97). Nella canzone della Identici, invece, «il lavoro viene esplicitamente posto al centro del brano e descritto in modo realistico e crudo, senza tacere i suoi risvolti “sociali” (strumenti di emancipazione) e le terribili conseguenze a cui esso può portare (strumento di morte)» (pp. 24-25). Risultato? Celentano vince il festival, l’Identici non accede alla finale.

Vi è poi, secondo l’autore, un terzo filone: l’interpretazione onirica. Proposta, più nota come Mettete dei fiori nei vostri cannoni dei Giganti, presentata al Festival di Sanremo del 1967, «ci aiuta a comprendere il gioco tra realtà e fantasia tipico del paradigma onirico» (p. 41). Una canzone che ha il merito, «al di là della sua ingenuità e degli ammiccamenti commerciali, di porre, nel tempio sacro della musica italiana, i malesseri di una generazione e soprattutto di cercare una chiave, per quanto rassicurante, non individualistica alla loro espressione» (p. 43).

La piacevolezza del lavoro di Sezzi sta tutta nella leggerezza dei commenti che nascono da un’attenta analisi dei testi. Considerazioni mai banali, attente al contesto. L’autore non lo dice direttamente, ma è di egemonia culturale che si tratta nel volume, come ben coglie l’economista Tito Boeri nella prefazione: «Il sospetto allora è che sia l’industria discografica a scoraggiare chi produce canzoni dall’affrontare questi temi controversi [oltre al lavoro, il precariato, l’immigrazione, le donne, N.d.R.]. Non sarebbe la canzone l’immagine della società italiana, ma semmai la società italiana a essere artatamente deformata dai produttori di “canzonette” per il grande consumo» (p. 11).

È nel capitolo «Dai carri nei campi agli aerei nel cielo» che il contrasto tra campagna e città e l’emigrazione che la complessità della società italiana comincia ad emergere. Dagli anni Sessanta del boom economico, che dà il via all’emigrazione interna, dal Mezzogiorno al Triangolo industriale, agli anni più prossimi, quelli caratterizzati dall’immigrazione extra nazionale. Una «rivoluzione» che cambia la società italiana. Le voci sono, nella loro profonde differenze, e solo per citarne alcune, quelle di Adriano Celentano del Ragazzo della via Gluck (1966), di Tenco di Ciao amore ciao (1967), di Marcella Bella di Montagne verdi (1972), di Francesco Guccini di Piccola città (1972), delle Orme di Cemento armato (1973), di Franco Battiato di Un’altra vita (1983), dei The Gang di Sesto San Giovanni (1993), il De Gregori di Titanic (1982), di Ivano Fossati di Italiani d’Argentina (1990), di Edoardo Bennato di Every Day, Every Night (A Kiev ero un professore) (2003).

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Francesco Guccini

Un’ulteriore classificazione, che chiude il volume, tratta dei lavori e delle professioni nelle musica leggera italiana. E qui citiamo La storia di Serafino (1969) di Celentano, Diesel (1977) di Finardi, Pescatore (1980) di Bertoli, Panama (1981) di Fossati, Yuppies (1988) di Luca Barbarossa. L’autore nel suo documentato excursus rileva l’assenza della figura dell’imprenditore, «figura centrale dell’attività economica» (p. 102).

Diversi anche i testi che trattano di sport: ciclismo, pugilato, calcio. E alla fi ne non si poteva non parlare del «non lavoro», di zingari vagabondi e barboni. Un approccio principalmente poetico che mai scivola nel razzismo o nella discriminazione.

«È la libertà, l’assenza di condizionamenti e vincoli a stimolare un sentimento di curiosità e di attrazione verso queste posizioni marginali, precarie ma indipendenti, apparentemente fragili ma padrone della vita» (p. 117). Come dargli torto… Ricordiamo, per concludere, due titoli diversissimi ma che confermano quanto sostenuto da Sezzi, il Lolli di Ho visto anche degli zingari felici (1976) da un parte e il Tozzi di Zingaro (1978).

Il saggio è corredato da un utile indice dei nomi e delle canzoni. Infine, per sapere del titolo… basta leggersi il libro!