Parigi, 30 aprile 2015. Il musicista e attivista sudafricano Hugh Masekela, tenace protagonista della lotta al regime di apartheid, era stato chiamato nella sede dell’Unesco per celebrare la musica jazz, potente veicolo di pace e di incontro tra i popoli, nella Giornata internazionale che le Nazioni Unite le hanno dedicato. Masekela era solito introdurre i brani in scaletta con la sua voce profonda e imprevedibile; così, nemmeno una delle sua composizioni più note sfuggì a questa consuetudine. Ecco allora che, nel presentare “Bring back Nelson Mandela”, canzone iconica della lotta globale per un Sudafrica affrancato dal segregazionismo razzista, Hugh cominciò a ricordare i grandi vecchi che avevano combattuto spalla a spalla con Madiba, scomparso da quasi un paio di anni, perché il Sudafrica divenisse un posto in cui il colore della pelle non determinasse il destino degli individui. E rammentava anche, mentre la band scaldava sempre più rumorosamente i motori, che ventun’anni prima, proprio in un giorno di tardo aprile, per la prima volta nella storia del suo paese, tutti i sudafricani furono chiamati a votare.

L’affermazione del principio “una testa, un voto” si era affermato nel corso di tre durissimi anni di colloqui tra la delegazione dell’African National Congress, guidata da Nelson Mandela, e i rappresentanti dei monopoli economico-finanziari, emblemi non detronizzati del regime razzista. Mandela, supportato dall’attuale presidente Ramaphosa, raggiunse questo compromesso con quella potente controparte tutt’altro che intenzionata a concedere terreno sul fronte della redistribuzione collettiva delle ricchezze. Risultato comunque eccezionale, per un paese che aveva fondato la sua potenza economica sul sistematico sfruttamento produttivo della manodopera nera e sulla sua esclusione politico-sociale, sin dal 1948.

Mandela, insediatosi il 10 maggio del 1994, dopo 27 anni di carcere e una vita intera spesa nella lotta contro le ingiustizie – in qualità di militante, di avvocato, di prigioniero politico – divenne il primo presidente nero del suo Paese, il primo democraticamente eletto, il primo a doversi confrontare con il futuro prossimo di una nazione bisognosa innanzitutto di essere accompagnata in un percorso di guarigione, collettivo e intimo al contempo. Serviva la verità per giungere ad una parvenza di conciliazione nella società e tra le comunità: fu proprio lui a chiedere al carismatico Arcivescovo Desmond Tutu di presiedere quella Commissione che si impegnasse a dar voce al dolore soffocato delle vittime e a favorire la confessione e il pentimento dei responsabili dei crimini commessi nel corso di quasi mezzo secolo in Sudafrica. A rispondere dei loro atti violenti, nonostante le polemiche, finirono anche esponenti di quell’Anc del quale Madiba era stato sin da giovanissimo un leader naturale e influente. Persino la sua combattiva e altrettanto carismatica consorte, dal quale tuttavia il presidente si era allontanato da tempo, Winnie Madikizela, venne chiamata a rispondere di un assassinio consumatosi nella township di Soweto.

La Primula Nera, così era chiamato Mandela all’inizio degli anni 1960 per la sua leggendaria capacità di sfuggire alle maglie repressive del regime per cercare alleati e supporto politico-militare tra Africa ed Europa, era divenuto il presidente di tutti i sudafricani e il suo obiettivo principale era quello di compattare una nazione sgretolata attorno a nuovi simboli e, perché no, miti. Per amalgamare una Raimbow Nation, ovvero una nazione arcobaleno, era indispensabile però trovare un centro di gravità al quale ancorarla. Perché allora non ricorrere al rugby, sport sbandierato dal precedente regime di apartheid quale emblema della supremazia bianca, per dare il via a questa missione impossibile? Come noto, il film “Invictus” racconta, ovviamente secondo i canoni holliwoodiani, proprio il dispiegarsi di questa bizzarra strategia di costruzione di una nazione attraverso l’efficacissima arma dello sport – per quanto l’autentica passione di Madiba ricadesse sulla boxe, che praticava quotidianamente anche nella prigione di Robben Island.

Così la vittoria sudafricana dei campionati mondiali di rugby, ottenuta contro gli imbattibili neozelandesi, rappresentò il primo passo concreto compiuto dai sudafricani per immaginarsi come un “noi”, come una collettività composita ma intrinsecabilmente unita, nonostante tutto. La fotografia di Madiba che stringe la mano del capitano dei nuovi Springboks, Francois Pienaar, mentre i loro volti si riconoscono reciproca umanità, è forse una delle immagini più iconiche della seconda metà del XX secolo, di certo non solo per il Sudafrica. Eppure, ancora poco più di un mese fa, durante i festeggiamenti per il quarto titolo mondiale, la nazionale sudafricana, sempre più arcobaleno, ha visto il paese in festa e gioiso come non accadeva da tempo – afflitto come è da crisi economica, disoccupazione, diseguaglianza sociale, obsolescenza infrastrutturale, corruzione. Ecco allora che il richiamo all’eredità morale e politica di Madiba, al suo entusiasmo della volontà mai disgiunto da una robusta dose di pragmatismo, è tornato prepotente in un Sudafrica in affanno. Il sogno del combattente Mandela è quindi rieccheggiato nelle parole del capitano Siya Kolisi, dalla storia di vita terribile ed epica, a ricordare a tutti i suoi concittadini che solamente insieme ci si salva. O si affonda.

Per tornare a quella serata primaverile in cui un trombettista, sognatore e combattente incallito al pari di Mandela, ha donato al pubblico non una semplice esibizione ma un frammento di memoria incandescente e vivo, un ultimo appunto; anzi due. Innanzitutto, il link al quale potersi godere Masekela e i suoi musicisti:https://www.youtube.com/watch?v=6RTbR_yMU9E . E poi: forse non lo sapevate, ma la prima edizione italiana de “La lotta è la mia vita”, raccolta di discorsi e poesie scritti da Mandela e portati avventurosamente fuori dalla sua prigione, fu data alle stampe nel 1981 qui a Reggio Emilia, per volontà di quel Comitato Unitario per l’amicizia, la cooperazione e la solidarietà con i popoli che trovava in Giuseppe Soncini il grande ispiratore e instancabile animatore. Lo stesso Comune che, dal 1977, aveva in essere un rivoluzionario patto di solidarietà con l’African National Congress, si fece carico così di disseminare il primo testo di Madiba in lingua italiana. Inoltre, l’artista reggiano Nani Tedeschi tratteggiò un ritratto del suo volto richiamandosi ad una delle poche fotografie scattate, clandestinamente, a Mandela nel corso del processo di Rivonia del 1963 – e quello stesso disegno divenne, di lì a poco, icona e simbolo a sua volta del movimento anti-apartheid.

A dieci anni dalla sua dipartita, proviamo quindi a porci in ascolto di quel “combinaguai” (che è il significato del suo nome in lingua Xhosa, Rolihlahla) che forse ha indirizzato in direzioni imprevedibili il senso profondo della parola “sogno”. Sogno inteso come tensione creativa verso una meta; sogno come lotta per la giustizia, la libertà, la dignità; sogno come capacità di spingere la propria speranza oltre i confini del possibile. Sogno, infine, come capacità di percepire l’umanità come un’impresa concreta che si realizza solo insieme agli altri.

Chiara Torcianti
Archivio Reggio Africa