Per capire la tragedia che fu il fascismo, oggi vi proponiamo una pubblicazione che racconta le conseguenze della dittatura nella nostra provincia: “Fascismo Omicida”, di Rolando Cavandoli.

L’apparire di questo secondo libretto di Cavandoli (il primo aveva per titolo Origini del fascismo a Reggio Emilia e provincia) segna un arricchimento ulteriore della indagine che si va conducendo in questi anni sul fenomeno fascista nella nostra provincia.

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Di questi brevi ma efficaci studi possono avvalersi quanti vogliano conoscere struttura e caratteristiche del fascismo nostrano soprattutto agli esordi.

Ma con “Fascismo omicida” l’autore, seguendo il dato cronologico dei decessi nel campo antifascista, spinge sia pure di sfuggita il suo sguardo su tutto l’arco del “Ventennio”.

Formula in proposito alcune interessanti osservazioni sulla “logica della violenza”, sulla “dottrina dell’omicidio”, sulla meccanica delle uccisioni e dell’azione per il salvataggio degli assassini, sulla complicità dello Stato, sulla fascistizzazione dell’apparato della Giustizia.

Egli ci fornisce anche documentate novizie sull’ azione, informativa e repressiva; notizie che caratterizzano un clima affatto sconosciuto in chi è nato in regime di libertà.

La sorveglianza capillare, casa per casa, della popolazione, al fine di impedire e reprimere le azioni antifasciste è persino i mormorii dei non pochi malcontenti, costituiva certo un forte ostacolo per gli avversari del regime.

Il partito fascista tendeva a trasformare ogni aderente in spia del proprio vicino, del proprio conoscente, del proprio familiare, e si può facilmente capire con quanta difficoltà, in quelle condizioni, la rete clandestina antifascista potesse sostenersi ed operare.

Comunque Cavandoli precisa la misura di questa difficoltà riferendo che nel ventennio 198 comunisti reggiani furono condannati dal Tribunale speciale, 128 furono inviati al confino e 124 ammoniti.

A questo quadro in cifre, manca il numero (che mai si conoscerà) di tutti coloro che hanno patito il carcere preventivo e poi sono stati rilasciati senza processo, di coloro che venivano carcerati in occasione del 10 maggio o di visite di alti personaggi a Reggio, di coloro a cui è stato intimato di lasciare il paese natale, dei fuorusciti, dei boicottati nel lavoro, dei bastonati, dei “ricinati”, ecc.

Ma a Cavandoli interessava essenzialmente trattare l’aspetto del fascismo omicida e si è soffermato pertanto sui nomi dei morti antifascisti, sulle circostanze della marre dei singoli, sulle situazioni generali del Paese in cui queste morti via via sono avvenute.

Vi contrappone un breve esame sui pretesi martiri fascisti e dimostra che quasi tutti costoro si trovavano nella posizione di aggressori nel momento in cui furono colpiti da uomini che si difendevano. Egli non ha cifre, come sarebbe stato auspicabile attendersi anche se è difficile incasellare i morti sotto una od un’altra voce, tanti e tali sono i “modi” in cui morirono gli antifascisti.

Tuttavia, chi voglia, riesce a stabilire con buona approssimazione l’entità delle perdite antifasciste dal 1921 in poi, perdite che secondo un nostro calcolo, fatto appunto sulla base delle notizie di Cavandoli, sono le seguenti: 29 uccisi dalle squadracce; 32 morti in seguito a percosse, 8 morti in carcere. Complessivamente 69 vittime, una cifra enorme se rapportata alle 5 perdite denunciate da parte fascista. Per la prima volta è possibile rendersi conto esattamente di questa grande sproporzione.

Le cifre citate hanno un loro triste significato: esisteva in molti lavoratori la volontà di difendere strenuamente le organizzazioni del proletariato, ma la lotta era impari perché avevano di fronte forze fasciste o parafasciste organizzate e armate, il cui piano era, viceversa quello di distruggerle senza badare al costo in vite umane.

Tale risultanza non è l’ultimo merito del libro di Cavandoli il cui titolo Fascismo omicida, alla luce di quei dati, assume il valore di una formula scientifica.

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Antonio Piccinini, socialista, vittima della violenza fascista