Alcuni anni fa Istoreco ha pubblicato prima in internet e poi con un vero e proprio libro cartaceo le brevi storie del ciclo “Gli occhi di…”. Ci siamo chiesti perché i vivi non ricordano gli occhi di Ovidio Franchi, di Beatrice Ravà, di Jozef Gabcik o di Neda Agha-Soltan.

Non sono testimonianze, sono brevi racconti scritti in prima persona. Sono sì atti creativi, ma non sono storie inventate. Sono storie basate su fatti storici e memorie vere. Con il progetto “Gli occhi di …” e i testi di Arturo Bertoldi vogliamo dare voce a chi non parla. Vogliamo invitare a riflettere sulla nostra storia, sulla nostra società, sulla nostra vita. Le loro storie le trovi anche su www.gliocchidi.it.

Visto che questa modalità di raccontare storie ci piace molto, pubblichiamo ogni tanto nuovi testi, scritti per un momento specifico. Questa volta è l’anniversario del 7 luglio 1960. Anche Ariello era sceso in piazza e ha visto l’autunno. Perché i vivi non ricordano gli occhi di Ariello?

Sembrava autunno

Ricordare costa fatica. Ricordare le ingiustizie, costa di più. Sono passati 60 anni, ma ho ancora in testa tutto. E nelle narici gli odori. E nelle orecchie tutti i rumori. E davanti agli occhi le foglie che cascavano a terra, spezzate dai colpi di arma da fuoco. Sembrava di essere in autunno.

Avevamo sperato che gli alberi dei Giardini Pubblici potessero fare qualcosa per fermare la furia delle camionette della Polizia, ma quella volta non era una giornata normale. Eppure avrei dovuto saperlo, perché me lo aveva detto la mia morosa. La sua compagna di lavoro che stava con un carabiniere era stata chiara “Isotta, domani tieni a casa Ariello. E’ meglio”. Ma solo a pensarci, mica potevi crederci che fosse vero. Quando ho visto ammazzare Afro Tondelli vicino a me ho capito tutto.

Non si scherzava più. Non c’entrava la protesta, la manifestazione. Questa volta era diverso. Io, Ariello, e tutte quelle migliaia di persone che erano in piazza eravamo dei bersagli. Ed era una cosa talmente incredibile, che la paura si mischiava allo stupore.

Guarda, ti dico, che lo stupore era quasi di più della paura. Poi io sono un tipo tranquillo e non mi è nemmeno passato per la testa di prendere qualcosa in mano e lanciarlo contro la Polizia. Nemmeno avevo voglia di urlare. Volevo solo andare via da quel posto lì, quel pomeriggio di luglio in cui qualcosa si era rotto. Quel qualcosa che io chiamo democrazia.

Quando sembrava che tutto si fosse calmato, mi sono diretto verso il deposito per recuperare la mia Vespa. Non me sono nemmeno accorto dei due camion della Polizia che stavano arrivando. Sono saltati giù e ci hanno preso e lanciati sul camion. Loro in otto e con le armi spianate. Mi sembrava uno di quei rastrellamenti che mi raccontava mio padre. Solo che loro non erano tedeschi e non eravamo in guerra. Era il 7 luglio 1960 in via Allegri a Reggio Emilia.

Schiacciati sul pianale del camion abbiamo avuto tutto il tempo per contare i tanti bossoli che rotolavano tutte le volte che il mezzo si fermava e guardare come tremavano le loro mani.

Armi senza sicura, puntate su di noi. E mi chiedevo perché io mi trovavo lì. Non avevo fatto niente. Ero un contadino di 22 anni che si era preso su da Massenzatico per andare a Reggio ad una manifestazione. Che colpe potevo avere?

In Caserma mi ha interrogato un carabiniere che veniva a ballare a Massenzatico. Mi ha guardato e fatto firmare della roba. A Massenzatico non ci è venuto più. E nemmeno a Reggio si è più visto.

Mi sono fatto 24 giorni in galera. Senza processo. In 24 giorni i miei familiari li ho visti una volta sola. Poi mi hanno mandato a casa. Come se non fosse successo nulla.

Nulla. Solo gente senza colpa uccisa per le strade o tenuta in galera senza motivo. A Reggio Emilia in un giorno di luglio che sembrava d’autunno.


IL VOLANTINO CON LA STORIA DI ARIELLO