di Gemma Bigi
Mentre tenta la fuga in Svizzera, travestito da sottoufficiale tedesco, Benito Mussolini viene catturato da un gruppo di partigiani a Dongo assieme alla compagna Clara Petacci e ad alcuni fedeli gerarchi. Il 28 aprile 1945 i prigionieri vengono fucilati su decisione dei vertici politici della Liberazione e dei comandi partigiani.
Il giorno successivo all’esecuzione i corpi vengono esposti in piazzale Loreto a Milano, lo stesso luogo in cui il 10 agosto del 1944 erano stati fucilati e lasciati alla vista i cadaveri di quindici partigiani, e non sfugge la portata politica di questa collocazione.
Una volta mostrati in pubblico i cadaveri sono oggetto di sputi, calci e spari in un crescendo di ira collettiva. Vengono così sottratti alla folla accorsa in piazza e appesi, a testa in giù, in un vicino distributore di benzina.
Come analizzato da Sergio Luzzatto nel saggio “Il corpo del duce”, questo linciaggio post mortem del corpo di Mussolini è una conseguenza del mito che il capo del fascismo volle costruire – e imporre – attorno alla sua figura.
“La fisicità del leader ha costituito l’essenza stessa della sua autorità”.
Il culto della personalità fece del leader il simbolo da osannare per i suoi e quello da distruggere per gli oppositori, poiché un fascismo senza il suo fondatore non era possibile. Mussolini era il fascismo e quindi rappresentava l’incarnazione dei suoi successi come l’incarnazione delle violenze perpetrate in suo nome, dai delitti dello squadrismo all’assassinio Matteotti – un corpo violato e un cadavere straziato – fino ai crimini dell’RSI.
Già il 26 luglio del 1943, il giorno dopo la cosiddetta caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini, è contro i suoi ritratti – oltre che contro le incisioni di fasci littori – che si manifesta il primo rifiuto pubblico del ventennio.
Nei lunghi mesi successivi, con la guerra che arriva sul suolo italiano assieme all’occupante, la spettacolarizzazione della morte dei nemici antifascisti diviene onnipresente, accanto alla figura del leader resuscitato dall’alleato tedesco.
Corpi di partigiani e oppositori sono esibiti con i segni delle sevizie; cadaveri abbandonati sui cigli delle strade o appesi ai lampioni come monito. La stessa sepoltura di questi corpi, il celarli al pubblico, diventa un atto di ribellione spesso pagato caro. E’ un’Italia – un’Europa – in cui la morte non è più lo spazio del privato ma una punizione, da usare come manifesto.
E’ questa la mentalità a cui decenni di violenze e mesi di spettacolarizzazione della morte hanno portato. Un’assuefazione all’orrore, percepito come normale perché parte del quotidiano.
In questo contesto si può comprendere la violenza e la dissacrazione – nel senso letterale del termine – di cui vengono fatti oggetto i corpi di piazzale Loreto il 29 aprile ’45 da parte della folla; un’ira riconducibile a quel particolare contesto storico, a quei giorni, a quelle esperienze condivise dall’intera comunità, indipendentemente dall’appartenenza politica.