Massimo Storchi ci propone un bell’approfondimento su una delle vittime della mobilitazione del 13 aprile, il giovane postino Marcello Bigliardi, originario di Masone dove oggi una via porta il suo nome. A ricordarlo, uno dei protagonisti di quei giorni, Hermes Grappi.


Ricordo del 13 aprile 1945 a Reggio.
Una giornata particolare per
le donne e gli studenti.

La figura di Marcello Bigliardi

 di Hermes Grappi

Eravamo a pochi giorni dalla liberazione. In città la brutalità fascista s’abbatté su un giovane che non aveva ancora 19 anni.

Si chiamava Marcello Bigliardi; abitava a Masone; faceva il postino. Era il 13 aprile 1945. Fu braccato nelle vie cittadine. Condotto alla famigerata Villa Cucchi dove fu barbaramente torturato e successivamente ucciso.

Egli non aveva aggredito, minacciato alcuno. Non aveva commesso nessun delitto, se non quello di aver diffuso – quello stesso giorno – messaggi patriottici ed antifascisti in un istituto scolastico cittadino.

Eravamo usciti da un lungo, doloroso inverno, gravido di privazioni, sofferenze, ed odio contro la lunga guerra e i suoi responsabili fascisti e tedeschi. Nel nord Italia, sempre più cresceva l’intraprendenza della Resistenza armata e anche la speranza che il fronte della linea “Gotica” finalmente fosse varcato, e le truppe alleate irrompessero nella pianura padana.

Però, per quel 13 aprile 1945, Il diario dei 2194 giorni di guerra precisa: “Fronte Italiano. Il comando della V armata rimanda ulteriormente l’inizio dell’offensiva a causa del persistente tempo sfavorevole. Nel settore dell’VIII armata britannica, il II corpo polacco espande la testa di ponte oltre il fiume Santerno”.

Ciononostante, il CLN reggiano – su suggerimento del PCI – aveva deciso di organizzare per quel giorno una manifestazione provinciale di donne per protestare contro la mancanza di generi di prima necessità ed esigere la fine della guerra e della occupazione nazista.

Ci si proponeva, in verità, di dare una dimostrazione di forza e vitalità dei patrioti reggiani che non si attardavano ad attendere, inerti, l’arrivo delle truppe alleate. Era un intento molto ardito, pericoloso perché la presenza in città dei tedeschi e fascisti era ancora minacciosa e consistente.

Proprio il 3 febbraio precedente, allo scopo di terrorizzare i cittadini, in Via Porta Brennone furono esposte le salme – barbaramente trucidate dai fascisti – dei giovani partigiani: Cristoforo Carabillò, di 28 anni; Sante Lusuardi, di 21 anni; Vittorio Tognoli, di anni 24 e Dino Turci di anni 20.

Ciò malgrado, noi del Fronte della Gioventù, ritenemmo doveroso ed utile dare il nostro appoggio alla coraggiosa iniziativa delle donne reggiane.

A quel tempo, il FDG nella nostra provincia era un’organizzazione giovanile clandestina patriottica unitaria «che non presentò ai giovani una sua ideologia … ma volle raccogliere tutti i giovani al di là di ogni distinzione sociale e di ogni tendenza politica, sull’unica piattaforma della lotta di liberazione nazionale…» (1).

Esso iniziò a sorgere, nel reggiano, nei primi mesi del 1944, su ispirazione del PCI. In seguito, riuscì̀ a coinvolgere anche giovani socialisti, cattolici, e assunse un’apprezzabile consistenza contribuendo all’incremento delle formazioni armate partigiane in montagna e in pianura e anche alla realizzazione di impegnative iniziative patriottiche. Riuscì̀ pure, nella clandestinità, a stampare un suo giornalino: «Riscossa giovanile».

Il FDG reggiano, avendo dato un contributo al successo della «Settimana del Partigiano» – svoltasi dal 11 al 18 ottobre 1944 – desiderava impegnarsi anche per l’iniziativa delle donne, programmata per il 13 aprile 1945. Quale responsabile di zona del FDG, fui incaricato della realizzazione del piano.

Non potendo, per ovvie ragioni, ipotizzare di far confluire giovani in città, decidemmo, di tentare un’azione dimostrativa dentro alcuni istituti scolastici cittadini, e di far giungere agli studenti un messaggio patriottico.

Dovevamo dunque penetrare negli istituti durante le lezioni.

Scegliemmo quelli dove l’età degli studenti era maggiore cioè: l’Istituto per geometri e ragionieri «Secchi», nell’omonima via, e l’ITI, in Viale Trento Trieste, ove si era trasferito anche lo «Zanelli»; escludemmo l’Istituto scientifico, in Via Emilia all’Angelo, perché frequentato da pochi studenti avendo esso iniziato con l’anno scolastico solamente nel 1941-42.

Scartammo inoltre il Liceo classico per errati pregiudizi politici e classisti. Convenimmo di operare disarmati, pur dando l’impressione di non esserlo; di non presentarci mascherati, ma camuffati con berretti ed eventuali baffi finti; infine di abbandonare rapidamente il centro cittadino a missione compiuta.

Come collaboratore mi fu affidato un coraggioso, intelligente, audace gappista di Correggio, purtroppo scomparso: Bruno Ligabue, zio della nota rock star, detto «Mongolo” per le sue caratteristiche somatiche.

Venne finalmente il 13 aprile 1945. Non era una giornata fredda. Vi erano leggere nuvole che coprivano in parte il sole; la primavera ritardava, ma l’aria era tiepida. Le donne iniziarono la loro prevista manifestazione di cui abbiamo copiose testimonianze:

In quel giorno mi trovai a Reggio dove riuscimmo a portare in Prefettura un numero di donne superiore al previsto. Si chiedeva lo zucchero, il sale e tanti altri generi di prima necessità. La delegazione incaricata di discutere con le autorità fu arrestata. Spararono alcuni colpi di rivoltella con l’intenzione di disperderci, ma noi restammo sul posto. 

Nello stesso momento, Bruno Ligabue, e il sottoscritto ci accostammo al portone dell’istituto «Secchi» ove il bidello si presentò ad aprire. Avevamo bussato nel momento in cui le lezioni erano già iniziate e tutti gli studenti si trovavano nelle aule.

Sembravamo anche noi studenti. Chiedemmo di conferire con il preside. Senza difficoltà ci fu consentito di entrare. Accompagnati dal mite bidello, salimmo svelti lo scalone e fummo accompagnati dal preside dell’Istituto (credo che fosse il professor Beneditti), al quale, con disinvoltura e sicurezza, dichiarammo subito di essere partigiani. È del tutto evidente che notevole fu lo sbigottimento del preside, e l’imbarazzo del bidello. Noi, senza preamboli, con una mano in tasca, fingendo di essere armati, intimammo ad entrambi di mettere immediatamente in funzione l’impianto radiotrasmittente collegato con tutte le aule, di cui conoscevamo l’esistenza.

Il preside non ebbe alcuna difficoltà, anzi dimostrò un’inattesa collaborazione. Bruno, scafato, si impossessò con esperienza e – con il proprio talento innato di speaker – con voce gagliarda, chiara e potente gridò: «Studenti, abbandonate le aule! Viva la Resistenza! Viva l’Italia libera ed indipendente! Abbasso il fascismo!».

In ogni angolo dell’Istituto il patriottico appello risuonò. lo continuavo a controllare discretamente il preside e il bidello, entrambi inerti e stupiti. Le porte delle aule si aprirono rumorosamente. Ebbe inizio un tramestio seguito da un gran vocio e grida tra cui ben si distingueva: «Sono arrivati i partigiani!».

In poco tempo tutti gli studenti dell’istituto, seguiti da alcuni professori, irruppero nella strada e nella piazza del Teatro Municipale, coinvolti in un rumoroso schiamazzo misto di stupore e simpatia per quanto era accaduto e – non escluso – anche di gradimento per le lezioni interrotte.

Noi, rapidi, favoriti dalla confusione, ci volatilizzammo.

Nello stesso momento all’ITI – in Viale Trento Trieste, ove era stato trasferito anche lo Zanelli – Marcello Bigliardi ed altri due nostri compagni non ebbero la fortuna di disporre di un sistema radiofonico centrale. Furono costretti a percorrere velocemente i corridoi del primo e secondo piano dell’istituto ed aprire le porte di tutte le aule lanciando identici appelli patriottici ed antifascisti. Gli studenti non uscirono dall’Istituto come accadde al «Secchi», ma si riversarono nei corridoi sospendendo le lezioni e si accesero animate ed anche contrastate discussioni sulla guerra e sul fascismo. Per tutta la mattinata le lezioni furono sospese e tutti gli studenti dei due Istituti furono coinvolti da un’indimenticabile ventata di patriottismo antifascista, sostenuti anche da alcuni professori. Vi fu pure un professore dello «Zanelli», di idee fasciste che contrastò l’entusiasmo degli studenti.

In pochi attimi la città fu investita e ravvivata dalla diffusione delle notizie di quanto stava accadendo di fronte alla prefettura, alle carceri e al «Secchi», all’ITI e allo «Zanelli».

Anche negli altri istituti scolastici cittadini, rapidamente si creò agitazione che in alcuni casi provocò la sospensione delle lezioni; comunque in tanti altri ebbe luogo una vivace ed anche contestata discussione tra professori e studenti, molti dei quali desideravano uscire dall’Istituto.

In breve, è fuori dubbio, in città l’impressione fu enorme, come non era mai accaduto per altre azione patriottiche che tra l’altro, frequentemente, avvenivano all’esterno del centro cittadino. Si diffuse la convinzione che i partigiani fossero già in città.

Il “colpo” fu umiliante per i fascisti e i tedeschi. Furono colti di sorpresa. Nella loro funesta distorta convinzione, non avevano mai supposto che la Resistenza potesse giungere a tanto e in centro cittadino, dove era fortemente presente tutto il loro apparato repressivo.

Uscito dal «Secchi», la curiosità mi spinse, imprudentemente, a recarmi in Corso Garibaldi e vidi le donne di fronte al portone della Prefettura che, combattive e coraggiose, aspramente inveivano contro i militi della GNR e Brigate nere, e specialmente verso un certo “Vulcano”, noto ambulante di Piazza San Prospero di Reggio.

Iniziò un’affannosa, rabbiosa caccia degli autori. Uscirono dalle caserme molti militi e brigate nere. Furono istituiti posti di blocco. Studenti e studentesse vaganti per la città furono fermati e minacciati perché avevano abbandonato la scuola e rudemente intimati a fornire informazioni utili a catturare gli autori dell’atto patriottico.

lo fui fortunato perché, malgrado fossi stato riconosciuto da una studentessa figlia dei Morlini – onesti cattolici abitanti nei pressi di Viale Isonzo – essi imposero alla loro figliola l’assoluto silenzio. Fortunatamente, doveva durare solo dodici giorni!

Noi, del Fronte della Gioventù, avevamo dunque buoni motivi per essere soddisfatti. Avevamo attuato ciò che ci proponevamo. Non era nostra intenzione tentare di trascinare gli studenti in pericolose manifestazioni di strada, ma solamente far giungere ad essi un forte segnale di fiducia patriottica.

Beninteso, non avevamo compiuto un’azione eroica alla quale attribuire soverchi importanza, ma attuato un’iniziativa ardita ed originale sì! In questa vicenda, di eroico vi fu solo Marcello Bigliardi sul quale – proprio nella stessa giornata – si scatenò la rabbia e la ferocia fascista per la beffa subita.

Non esiste alcuna testimonianza documentata sulla modalità dell’arresto di Marcello Bigliardi. Dobbiamo basarci solamente su quanto è emerso durante il dibattimento processuale, svoltosi nel 1946, a carico di coloro che sono stati accusati del suo arresto e della sua uccisione. Riconosciuto come uno dei partecipanti all’irruzione patriottica all’ITI, risulterebbe sia stato arrestato da un brigadiere delle famigerate Brigate nere, Ernesto Cerlini – fu Isidoro, nato nel 1898 – e da Piero Dodi di 18 anni, pure delle Brigate nere.

Indi, il Cerlini avrebbe condotto il nostro compagno Marcello alla funesta Villa Cucchi dove, in collaborazione con altri, lo ha sottoposto ad atroci ed orribili torture, senza però che esso abbia fornito alcuna indicazione per permettere ai suoi aguzzini di procedere al altri arresti.

Successivamente, in condizioni pietose, Marcello fu trascinato all’attigua caserma della GNR, che aveva sede nell’ istituto “Ciechi” – in Via Franchetti ove attualmente ha sede l’Istituto Scientifico «L. Spallanzani» – e qui agonizzante gemeva disteso sul freddo selciato del portico. Un teste processuale ha riferito che le sue struggenti, pietose lamentazioni, disturbavano il capitano Massari, il quale ordinò al Cerlini: «Facciamola finita … con quello là”.

E così tragicamente fu!

Dalle cronache di allora del dibattimento detto, risulterebbe inoltre che un certo capitano Vimercati, scorgendo il cadavere, ordinò al truce boia: “Portate via quella roba». Dodici giorni dopo, finalmente, venne la liberazione!

Il Cerlini fu arrestato e con altri della Brigata nera, condotto, nel marzo del 1946, di fronte alla Corte d’assise di Reggio. Le cronache processuali a carico del torvo Cerlini riportano quanto segue: «L’ex ausiliaria e spia Onella Iori racconta che il Cerlini, dopo aver fucilato il Bigliardi, si recò al bar delle brigate nere a bere un bicchiere di vino per rianimarsi, dichiarando di aver eseguito quella fucilazione volontariamente, (3). Il medesimo infame figuro fu accusato di altri delitti e fatti raccapriccianti per cui fu, giustamente, condannato a morte dalla Corte d’Assise. In successive istanze la pena fu ridotta – e così progressivamente in ulteriori passaggi processuali svoltesi in una situazione politica mutata, scandalosamente – come per molti criminali, assassini fascisti – si giunse, purtroppo, all’annullamento di sentenze precedenti, doverosamente punitive.

A Marcello Bigliardi, nel 1953, dall’Esercito italiano fu riconosciuta la “croce al merito di guerra in seguito all’attività partigiana” e, giustamente, a Villa Masone gli è stata dedicata una via.

 

(1)Cfr. P. DE LAZZARI, Storia del Fronte della Gioventù, Editori Riuniti, Roma 1974.
(2) Testimonianza di Idea Del Monte Grazia in La donna reggiana nella Resistenza, Atti del convegno tenuto a Reggio Emilia nella sala del Consiglio provinciale il 5 aprile 1965, Amministrazione Provinciale Reggio Emilia, SID.
(3) «Reggio democratica», 21 marzo 1946.