Come rendere partecipi anche le nuove generazioni a quell’esperienza che fu la Resistenza? Prova a rispondere a questa domanda Marisa Ombra con “Libere sempre. Una ragazza della Resistenza a una ragazza d’oggi”, edito da Einaudi, il libro che vi presentiamo oggi.

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Marisa Ombra è nata ad Asti nel 1925 ed ha al suo attivo una significativa militanza come staffetta partigiana, come dirigente dell’Unione donne italiane e come presidente della cooperativa “Libera Stampa” che editava il settimanale “Noi donne”. Ha svolto ruoli di primo piano nell’Anpi e nel 2006 è stata nominata Grand’Ufficiale della Repubblica.
Qualche anno fa, mentre era a Roma, in attesa di incontrare la nipote che settantatré anni meno di lei, ma di cui avvertiva il cambiamento fisico e psichico della pubertà, ha deciso di scriverle una lunga lettera. Avvertiva il bisogno, a lungo meditato, di rendere partecipi le nuove generazioni dei valori e delle attese che erano stati a fondamento della lotta partigiana e della scelta antifascista.
Ciò che scatena in Marisa quest’esigenza di comunicare è il confronto con la realtà sociale nella quale le giovani si trovano a vivere (che non è certo quella che era stata vagheggiata nelle lunghe veglie o nelle speranze dei combattenti), ma anche il bisogno di trasmettere – finalmente!, dice lei – una visione del mondo “al femminile” contrapposta all’usuale narrazione dei rappresentanti dell’altro sesso, spesso incentrata più su fatti d’arme o su episodi politici che sulle motivazioni umane e vitali del mondo nuovo da realizzare.
Il suo racconto parte dell’esperienza anoressica che ha vissuto proprio all’età della giovanissima nipote che ora vede davanti a sé nei viali di Villa Pamphili con il suo amato cane: allora, lei dovette subire l’affronto di una prova così dura per il dolore che provò per la morte della nonna, la persona a lei più cara dopo la mamma perché era stata lei a far crescere Marisa e sua sorella minore mentre la loro madre era impegnata nel lavoro in fabbrica.
Marisa faticherà a uscire dal vicolo cieco della malattia (peraltro a quel tempo confusa con l’esaurimento nervoso), anzi sembra essere stimolata a persistere per il contemporaneo ridursi delle possibilità alimentari originato dall’inizio di quella che avrebbe dovuto essere una guerra lampo. Ed è proprio la recrudescenza della guerra a darle la forza di uscire dal tunnel. «C’erano delle urgenze. Le mie angosce potevano aspettare.
C’era qualcosa da fare subito», scrive Marisa. Infatti, a diciassette anni inizia la sua attività di staffetta partigiana e a dedicare ogni attenzione al ruolo che la vita le ha destinato, abbandonando il viluppo delle domande senza risposta sul «come e chi volesse essere».
Ma la narratrice non si lascia trasportare soltanto dai ricordi della sua militanza (seppur questi abbiano un peso rilevante nella narrazione). Il fulcro resta sempre il confronto con la realtà d’oggi, con le conquiste ottenute e le reali condizioni in cui la donna si trova a vivere settant’anni dopo la Liberazione. «Cosa è rimasto?», si chiede Marisa pensando ai progetti che erano maturati nei mesi di lotta e durante gli anni delle battaglie per le conquiste civili che hanno caratterizzato la seconda metà del secolo. E nonostante le tante sconfitte, le situazioni ancora aperte, il dolore per lacerazioni che non trovano giustificazioni in un mondo che si definisce «progredito e autosufficiente», emerge «un moltiplicarsi di segnali di risveglio e di speranza nel futuro».
Ed è con una nota di fiducia nelle nuove generazioni e nell’affermarsi di condizioni di vita rispettose delle specificità e dei valori di ognuno che Marisa conclude la sua lettera aperta, convinta che la “metà del mondo” è emersa e saprà far valere il significato della parità di genere.

Carlo Pellacani