A cura di Alfredo Sasso

Il 6 aprile 1941 iniziò l’invasione della Jugoslavia, avviata dalle truppe nazifasciste tedesche, subito sostenute da quelle italiane e ungheresi. Questi paesi procedettero poi alla spartizione dei territori dello stato invaso e alla creazione di stati-fantoccio. All’amministrazione italiana, che durò sino all’8 settembre 1943, fu assegnato circa un terzo dell’intero territorio jugoslavo ed un quinto dei suoi abitanti.

L’occupazione scatenò una serie di conflitti che coinvolsero le milizie nazifasciste croate (ustaša), quelle collaborazioniste serbe (četnici) e slovene (domobranci), e la resistenza antifascista jugoslava. Le conseguenze di questi eventi furono catastrofiche per le popolazioni locali, vittime di violenze sommarie, deportazioni e distruzioni durate fino alla liberazione da parte dell’esercito partigiano jugoslavo, completata quattro anni dopo. Complessivamente, si stima che i conflitti in questi territori causarono circa un milione di morti nel periodo 1941-1945.

L’Italia fascista è stata un protagonista di questi eventi: indirettamente, per il sostegno alle forze collaborazioniste e agli ustaša croati – questi ultimi condussero una campagna di sterminio che riguardò principalmente ebrei, serbi e rom -; ma anche direttamente, perché le autorità italiane investirono nello spazio jugoslavo ingenti risorse belliche e umane. Nell’ambito della repressione anti-partigiana, furono attuate politiche deliberatamente persecutorie verso la popolazione civile. Le truppe italiane furono responsabili di rappresaglie, devastazioni di interi villaggi, esecuzioni sommarie, e della creazione di campi di concentramento in cui furono internati, secondo diversi studi, circa 100.000 jugoslavi.

L’Italia fascista è stata un protagonista di questi eventi: indiretto, per il sostegno alle forze collaborazioniste e agli ustaša croati – questi ultimi condussero una campagna di sterminio che riguardò principalmente ebrei, serbi e rom -; ma anche diretto, perché le autorità italiane investirono nello spazio jugoslavo ingenti risorse belliche e umane, attuando politiche deliberatamente persecutorie verso la popolazione civile. Le truppe italiane furono responsabili di rappresaglie, devastazioni di interi villaggi, esecuzioni sommarie, e della creazione di campi di concentramento in cui furono internati, secondo diversi studi, circa 100.000 jugoslavi.

Queste operazioni sistematiche obbedirono alle rigide disposizioni dei vertici militari, in primis quelle di Mario Roatta, comandante della II Armata di stanza in Jugoslavia, autore della famigerata Circolare 3c, all’insegna del motto “non dente per dente, ma testa per dente”. Tra gli episodi più drammatici vi fu il massacro del 12 luglio 1942 a Podhum, paese vicino a Fiume, in cui vennero fucilate 91 persone; e il campo di concentramento nell’isola di Arbe/Rab, in cui tra il 1942 e il 1943 transitarono migliaia di prigionieri: più di 1.400 morirono per fame, malattie e stenti.

A ottant’anni di distanza, la partecipazione dell’Italia all’occupazione della Jugoslavia è ancora oggi  oggetto di una ampia rimozione dalla memoria storica nazionale. Molti storici hanno individuato l’origine di questo problema nell’assenza di una “Norimberga italiana”, un accertamento giudiziario dei crimini commessi dalle autorità italiane, come invece avvenne per Germania e Giappone, e nonostante le richieste in tal senso delle autorità di Belgrado e della Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra.

Di conseguenza, è mancata una presa di coscienza nella società italiana sulle sofferenze causate dall’occupazione. Sin dal primo dopoguerra si è affermata l’immagine stereotipata e autoassolutoria degli “italiani brava gente”, da contrapporre ai “cattivi tedeschi” su cui scaricare una parte esclusiva o comunque preminente delle atrocità. È una raffigurazione consolidata, tanto nella società italiana quanto nella sua proiezione esterna, e che trova corrispondenze nell’attuale clima culturale-memoriale europeo.

Nelle istituzioni di diversi paesi (Polonia, Ungheria, Croazia) si stanno recentemente affermando tendenze revisioniste, che minimizzano o negano gli apporti di movimenti nazionalisti e collaborazionisti locali alle persecuzioni nazifasciste. Tornando all’Italia, la narrazione diffusa negli ultimi anni sulle complesse e tragiche vicende dell’alto Adriatico, rimuove o distorce l’occupazione della Jugoslavia e ciò che l’ha preceduta, ovvero la politica di assimilazione forzata delle comunità slavofone e la violenta propaganda antislava nei territori prossimi al confine orientale che il fascismo italiano promosse sin dagli anni Venti.

È giusto precisare che vi furono anche, da parte di soldati e ufficiali dell’esercito, episodi di soccorso alle popolazioni (in particolare ebrei e serbi) minacciate di morte da parte dei nazifascisti tedeschi e croati; così come ci fu, da parte di migliaia di combattenti italiani, la scelta di passare tra le fila dei partigiani jugoslavi dopo l’8 settembre per sostenere quella che ritenevano una comune lotta contro l’oppressione nazifascista europea. Questa decisione fu idealmente condivisa e contraccambiata da quella che presero migliaia di jugoslavi, trovatisi al momento dell’armistizio in territorio italiano come internati militari, politici o civili, per unirsi alle forze partigiane italiane, spesso dopo avere ricevuto rifugio e sostegno dalla spontanea solidarietà di comuni cittadini.

Queste composite forme di aiuto e solidarietà ci ricordano la complessità di ideali, di comportamenti e di istinti – tanto di sopravvivenza come di slanci morali – che fu la Seconda guerra mondiale. Ma non può occultare i crimini compiuti in nome delle istituzioni italiane dell’epoca.

Come auspicava l’appello sottoscritto nell’aprile 2021 da diversi storici ed enti di ricerca, e rimasto purtroppo ancora inascoltato, una dichiarazione pubblica o una visita dei rappresentanti istituzionali di oggi presso luoghi di memoria come Rab e Podhum avrebbe un notevole significato simbolico. Dimostrerebbe un’ammissione di responsabilità e un riconoscimento delle sofferenze inflitte ai popoli che furono parte della Jugoslavia, un passo in avanti fondamentale per la riconciliazione europea e una comprensione dei processi storici.

Proprio nel periodo in cui una guerra è riesplosa nel cuore dell’Europa, restituendoci il repertorio di devastazioni, violenze sui civili, spostamenti di popolazione e miti della purezza etnica-culturale tipici dei conflitti novecenteschi, risolvere i conti con il passato proprio e dei propri vicini sarebbe una lezione di pace, un segnale forte per un orizzonte internazionale più giusto e civile.

Alfredo Sasso

Fonti e approfondimenti

  • Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Laterza, 2013;
  • Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-43), Einaudi, 2004;
  • Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, Bollati Boringhieri, 2003;
  • Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, 2013;
  • Costantino Di Sante, Italiani senza onore, Ombre Corte, 2005;
  • IRSREC FVG, “A ferro e fuoco. L’occupazione italiana della jugoslavia 1941-1943”, 2021, mostra virtuale: https://www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it/;
  • Campifascisti.it, Scheda sul Campo di concentramento di Arbe: https://campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=35;
  • Appello alle istituzioni per un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti: https://www.reteparri.it/comunicati/6605-6605/

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