Questo sarà un 25 aprile diverso. L’anniversario della Liberazione, per la prima volta in 75 anni, sarà senza le persone, la gente, le piazze piene, i cortei. Una festa di popolo, di persone, resterà senza i protagonisti, gli ultimi testimoni che quelle giornate vissero e i ragazzi che della Resistenza hanno letto (poco) o ascoltato qualche voce che, anche Istoreco, in questi anni, ha voluto e potuto conservare e diffondere.
La gente, le persone, al centro per ricordare comunque quella storia, in piazza ieri oggi in casa ma sempre per ricordare. La parola “popolo” è stata ormai contaminata dai tanti populismi e sovranismi, ma nei tempi a venire dovremo recuperarlo non solo perché di “popolo” si parla proprio nell’articolo 1 della Costituzione ma per tutto quello che quel termine ha rappresentato nella storia nazionale almeno da Mazzini in poi.
Un 25 aprile senza gente, persone. La città deserta (o quasi), così vivremo il settantacinquesimo.
Anche quella notte del 9 settembre 1943 Reggio era deserta, solo il rumore dei cingoli dei panzer che prendevano possesso dei nodi cruciali (Prefettura, caserme, aeroporto) spazzando via in poche ore ogni resistenza e lasciando cinque ragazzi a terra, uccisi.
Alla nostra città i nazisti avevano riservato il discutibile “onore” di essere occupata dalla Divisione SS Corazzata intitolata al Führer, quella stessa che aveva sfilato poche settimane prima per le nostre strade, ancora come temibile alleato e che si sarebbe macchiata del primo massacro a Boves poche settimane dopo. Quella divisione che dava la caccia ai nostri ragazzi con le stellette per spedirli in Germania, dove sarebbero stati i primi resistenti, rifiutando in massa ogni forma di collaborazione. Una caccia ostacolata dalle tante donne che facevano a gara a nascondere, aiutare, rifornire di abiti civili quelli che erano ormai ex-soldati ma che loro vedevano come i loro figli, fratelli, mariti.
La gente fu invece di aiuto quel martedì 28 settembre quando, approfittando proprio della giornata di mercato, nella canonica di San Francesco uomini con storie diverse, idee diverse e speranze diverse ma uniti nella consapevolezza che soltanto l’unità poteva darci qualche speranza, fondarono il CLN, l’organismo politico che diresse la lotta di Liberazione per oltre 20 mesi.
Non c’era nessuno invece in quelle mattine d’inverno, quasi l’alba, quando prima sette fratelli e un disertore e poi un sacerdote e otto antifascisti furono assassinati di nascosto, e di nascosto sepolti in un’azione di vendetta che mostrava già l’impotenza criminale dei fascisti risorti. Dalle piazze piene dei vent’anni del regime alla solitudine delle sfilate degli estremi alleati dei nazisti: in quelle immagini tutto il fallimento della Repubblica di Salò.
Mentre la gente, in città come in campagna, sopravviveva nella tragedia quotidiana di una guerra che colpiva anche dal cielo e che chiedeva, giorno per giorno, un sacrificio umano che superò le 700 vittime civili.
Ma la gente, in una guerra totale come quella che avevamo portato per primi agli altri e che ora ci era tornata in casa, non poteva rimanere spettatrice, era diventata parte della strategia, un’arma da usare contro il nemico. Nell’impotenza a colpire i partigiani che si moltiplicavano, giorno dopo giorno, in montagna come in pianura, si colpivano a caso le persone. Una guerra anche contro donne e bambini, come recavano gli ordini degli occupanti. Che fossero poveri montanari con il loro parroco a Cervarolo o 32 persone sfollate in cerca di salvezza come alla Bettola.
Perché la guerra richiede ordine, disciplina, addestramento. I partigiani si trovarono ad imparare a farla nella maniera peggiore possibile: facendola. Non c’erano le accademie in montagna o in pianura, né corsi di addestramento o manovre di preparazione. Migliaia di ragazzi, contadini e operai per lo più (ma anche studenti) si trovarono buttati a combattere contro il nemico ancora efficiente e crudele. Fortunati quelli che si trovarono un capo che qualche esperienza l’aveva fatta, magari proprio sotto le armi fasciste in Grecia, Jugoslavia, Albania. Ora le parti erano invertite. E quelli furono i primi comandanti.
Ma una resistenza, una guerriglia non si fa senza la gente (Che Guevara ce lo ricorda) e la gente, prima ancora di diventare “popolo” è la somma di persone, vite, esperienze, bisogni, che bisogna capire per poterli convincere a rischiare poco o tanto per qualcosa che valga la pena. Capire la mentalità del montanaro che vede arrivare gente forestiera a percorrere i suoi sentieri, a chiedere cibo quando la scarsità è la storia di quei borghi e paesi, a portare abitudini nuove e nuove idee. Ma capire anche il contadino della pianura che sogna la terra finalmente sua e ricorda ancora le violenze fasciste di venti anni prima. Capire anche quei sogni, quelle speranze, è stato indispensabile a fare anche della bassa, apparentemente la zona meno adatta alla guerriglia, un territorio ostile e nemico per fascisti e tedeschi.
La Resistenza è stata una difficile costruzione, un work in progress più volte quasi azzerato ma che è stato capace di ripartire proprio perché sorretto da quella volontà di capire, quel desiderio di cambiare davvero le cose, la storia, i ruoli, la vita di tutti. E da una grande capacità di dialogo, di confronto. Persone diverse, professori universitari cattolici e comunisti reduci da anni di carcere, sacerdoti preoccupati della proprie comunità e proletari che sognavano un’impossibile rivoluzione, borghesi e figli di mezzadri a discutere su quale futuro sarebbe seguito.
Reggio anche in questo è stata speciale. Altrove la Resistenza è stata spesso conflitto, scontro fra visioni e strategie. Sui nostri monti, come in pianura, quell’unità nata in quella canonica nel settembre 1943 si è mantenuta, discussione dopo discussione, confronti al limite del litigio, quasi a riecheggiare quel “uniti siamo tutto divisi siamo niente” che era risuonato per le nostre strade e piazze quarant’anni prima.
E poi le donne, le madri, le ragazze. Quante volte abbiamo sentito rispondere alle nostre domande su quell’impegno che poteva costare la vita, sul perché di quella scelta: “abbiamo fatto quello che dovevamo”. Basta. Con semplice concretezza femminile, che fosse prendere davvero un’arma, portare un messaggio, aiutare, accudire, curare, sfamare e tutto quello che poteva servire a far andare avanti un altro giorno quei ragazzi. “Abbiamo fatto quello che dovevamo”.
Non c’era gente quando i plotoni di esecuzione lasciavano cadaveri sulle strade, sulla via Emilia (oltre 60 in quaranta giorni), a Bagnolo, Reggiolo, Campagnola, in città. Gli assassini se ne andavano e allora ecco le persone uscire allo scoperto, a piangere su quei corpi scempiati che dovevano restare lì, esposti, ad ammonimento, col terrore di riconoscere un viso noto.
Perché c’erano anche persone dall’altra parte, mitarbeiter, collaboratori, delatori, per denaro, per vendetta o per convinzione e quella guerra che era anche civile dimostrò tutta la sua crudeltà e ferocia.
Paolo, torturato, una gamba amputata, fucilato, Vittorio, ucciso con la sorella sull’aia di casa, Marcello, diciott’anni di Masone massacrato a Villa Cucchi e ucciso, Valentina uccisa a pugnalate dai nazisti, Mimma colpita all’ultimo istante da un cecchino. Dirigenti e ragazzi, persone esperte e giovani, uomini e donne, tutti a formare quel “popolo” che stava riprendendosi un futuro.
Fino alla fine la gente, le persone, sono state obiettivo e vittime. A poche ore dalla liberazione a Canolo nove uccisi, erano già in strada a festeggiare la fine dell’incubo quando ecco le raffiche di tedeschi in fuga.
Ma le strade e le piazze alla fine si sono riempite, le foto e le riprese alleate ce lo rendono con efficacia, i partigiani che si riprendono la città, Giorgio che alza il Tricolore al Municipio, l’arrivo degli americani, dei brasiliani fra ali di folla, le prime sfilate di donne e ragazze per la via Emilia (in testa Paulette la figlia di Paolo), e la gioia perché era finita e c’era il sole e si poteva finalmente ridere, correre, insieme, tutti, liberi.
Una gioia da far dimenticare anche le ultime fucilate dei vigliacchi appostati sui tetti.
Era finita. Era la vittoria.
di Massimo Storchi