Se le tracce dei primi insediamenti umani nel territorio della provincia di Reggio datano al Paleolitico e testimoniano successive e consistenti influenze etrusche e gallo-celtiche, piuttosto controversa rimane, invece, una eventuale origine prelatina della città. A corredo di tale ipotesi qualcuno fa risalire il toponimo Regium alla fondazione del centro da parte di un gruppo di Regiates di origine ligure, venuti da Velleia al tempo della prima dominazione romana. Altri sostengono invece una derivazione da Rigion o Region, luogo di adunanza o di mercato, nella lingua dei Celti.
In entrambi i casi, il nome corrisponderebbe al latino forum. Recenti rinvenimenti archeologici testimoniano dell’esistenza, ai margini dell’attuale centro urbano, di villaggi risalenti alla tarda età del bronzo, il più importante dei quali terramara della Montata, a San Pellegrino ha permesso di approfondire la conoscenza degli usi abitativi e funerari dei più antichi residenti del contado reggiano.
I primi coloni romani cominciarono ad arrivare nella zona dal 193 a.C., via via che procedeva la conquista definitiva della intera regione; negli anni in cui Marco Emilio Lepido costruiva l’importante strada consolare che porta ancora oggi il suo nome, dovette sorgere, siamo fra il 182 a.C. e il 174 a.C,  il primitivo nucleo della città.
Dapprima modesto castrum destinato ai rifornimenti e alla sosta delle truppe, Reggio crebbe successivamente, grazie alla propria felice collocazione geografica e alla efficace strutturazione imposta dai romani al territorio circostante, fino a trasformarsi in un importante nodo di transito e di commercio lungo la via Emilia.
Divenuta da accampamento città, dotata di templi e di edifici civili di cui il sottosuolo restituisce spesso frammenti interessanti per qualità e decoro, la Reggio romana dovette presumibilmente occupare il perimetro compreso fra le attuali vie Campo Samarotto e San Girolamo a est, Dante Alighieri e Secchi a nord, Campanini e Guido da Castello a ovest, Ponte Besolario e Campo Marzio a sud.
Vivace e attiva nell’artigianato e nella marcatura, fra le corporazioni di mestiere esistevano quelle dei fabbri, dei cardatori di lana, dei tintori, dei conduttori di muli, dei lavoratori del metallo, del vetro e dell’osso, e dei tessitori di panni vecchi, mentre diverse erano le fornaci che producevano laterizi, la città romana visse il proprio momento di massima floridezza in epoca imperiale, durante il primo e il secondo secolo dopo Cristo. Subito dopo dovette cominciare, presumibilmente, la decadenza: nel 227 una prima ondata di popolazioni barbariche si abbattè sulla regione, distruggendo diversi dei suoi fiorenti centri urbani. Più tardi nelle campagne fra Parma, Reggio e Modena si sarebbero insediati come coloni, dietro concessione imperiale, i Taifali, forse di origine slava, certamente di costumi arretrati e bellicosi.
Fra un’invasione e l’altra infierivano le pestilenze che finivano di spopolare la città e inselvatichivano i coltivi. Nel 387 Ambrogio, vescovo di Milano e futuro santo, così descriveva, in una delle sue lettere alle comunità cristiane dell Emilia, la situazione: “Venendo da Bologna, lasciavi alle spalle Claterna, Bologna stessa, Modena e Reggio (…); alla sinistra, non senza compassione tu vedevi gli incolti luoghi dell’Appennino, meditando fra te stesso con dolore e considerando come fossero già un tempo castelli di popoli assai fiorenti, e poi tanti cadaveri di città semidistrutte”.
Nel frattempo anche nel reggiano aveva infatti cominciato a diffondersi il cristianesimo. Se le prime testimonianze archeologiche del radicarsi del nuovo culto è la lapide di Mavarta, ritrovata a S. Ilario d’Enza sotto il sagrato della chiesa dal Chierici, e quella di Rusticus, rinvenuta a Reggio, risalgono al finire del quinto secolo o agli inizi di quello successivo del 451 la prima menzione certa della presenza in città di un vescovo, la serie dei presuli locali doveva essere però cominciata prima. Ma del più illustre di loro, Prospero, destinato a diventare il santo protettore della città, quasi nulla di certo si conosce; eletto forse a metà del quinto secolo, la tradizione gli attribuisce fra gli altri, il miracolo di una nebbia fittissima che avrebbe nascosto il centro urbano alla vista delle orde di Attila, sottraendolo così alla distruzione.
Di sicuro, invece, la figura del vescovo, erede di alcune delle prerogative dei magistrati romani, andava assumendo in città, nella grande incertezza del momento, un ruolo centrale riguardo anche alla vita civile. Sarà infatti uno di loro, Pietro, ad ottenere dall’imperatore Ludovico nel 900 la concessione formale di costruire un castello e una muraglia potente a difesa della città. Ma prima sarebbero passati  durante gli unici secoli del medioevo che è lecito definire buii per il naufragio di ogni testimonianza al riguardo  Alarico e le sue torme, gli Eruli di Odoacre, i Coti di Teodorico e nel 526 i Bizantini. La potestà di Giustiniano era destinata a durare solo fino al 568, al momento in cui sopravvennero i Longobardi; dopo la conquista, la città, ridotta ad un nucleo piccolissimo, avrebbe assunto la funzione preminente di centro fortificato, mentre i resti dell’abitato romano, il circuitus civitatis, rimanevano tutt’intorno a testimoniare una decadenza che sembrava irreversibile. Dei due secoli di denominazione longobarda quasi nulla si conosce; ma una loro chiesa, dedicata a S. Michele, dovette essere edificata  nei pressi del luogo in cui più tardi sarebbe sorta la Cattedrale, fra la fine del settimo secolo e l’inizio di quello successivo.
La calata dei Franchi nel 773 avrebbe, com’è noto, riportato la guerra nella penisola; occupata la città dagli uomini di Carlo Magno, venne allora costituito il comitato reggiano, i cui confini coincidevano grosso modo con quelli della diocesi. E a quell’epoca datano alcune delle più antiche carte custodite dagli archivi cittadini, che documentano le concessioni del re dei Franchi e futuro imperatore alla chiesa reggiana nella primavera del 781.
Se il sistema feudale che i carolingi cominciavano ad instaurare introduceva di nuovo nella vita civile, dopo secoli di confusione, qualche parvenza di diritto, l’ultima, terribile invasione straniera si sarebbe abbattuta sulla regione nell’ 889, quando gli Ungari avrebbero sistematicamente devastato i centri abitati posti lungo la via Emilia. A Reggio sarebbero stati distrutti il monastero di S. Tommaso e forse la primitiva chiesa di S. Prospero fuori dalle mura; lo stesso vescovo Azzo sarebbe stato ucciso.
Il clima di insicurezza che ne derivò avrebbe comportato la fuga della gente di pianura verso i rifugi più sicuri sulle colline, dando inizio al medioevo dei castelli; e anche la città, grazie a Pietro, il successore di Azzo, avrebbe avuto il suo robusto sistema di difesa. Dentro al piccolo ma munitissimo castello del vescovo si calcola che il suo perimetro, allineato a nord con la via Emilia, coincidesse grosso modo con l’odierno sistema delle due piazze principali andava intanto completandosi la fabbricazione della cattedrale dedicata a S. Maria; sul finire del secolo, nel 997, terminava invece la costruzione della nuova chiesa intitolata a San Prospero, detta infatti “di castello”.
Mentre in città il potere episcopale riceveva importanti sanzioni  l’imperatore Ottone I’avrebbe concesso al vescovo Ermenaldo l’autorità comitale, e Corrado II, nel 1027, avrebbe nominato un altro presule, Teuzone, messo imperiale, nel contado cresceva rapidamente la fortuna dei Canossa, i cui domini si sarebbero infine estesi da Mantova alla Toscana. Alla morte della gran contessa Matilde il cui ruolo, al tempo della lotta per le investiture, sarebbe stato determinante per il destino politico d’Europa  in città si affermavano le prime forme di un autonomo governo comunale, e il centro della vita civile tornava a trasferirsi a valle.
Al 1130 risale la prima notizia certa dell’esistenza di una magistratura municipale: i due consoli, destinati ad affiancare l’autorità del vescovo sarebbero ben presto aumentati di numero, mentre le famiglie della più antica nobiltà feudale, lasciati i castelli del contado, occupavano pian piano il centro urbano, creando i presupposti della forte conflittualità che presto avrebbe caratterizzato la vita cittadina.
Intanto il comune reggiano estendeva la propria autorità sul territorio circostante e partecipava alla Dieta di Roncaglia e alla Lega Lombarda, inviando propri delegati alla stipula della pace di Costanza nel 1183. Sei anni più tardi anche il vescovo giurava fedeltà al comune, a nome degli uomini sottoposti alla propria giurisdizione: se le sue funzioni di governo ne uscivano fortemente ridimensionate, la sua autorità sprituale non ne avrebbe risentito.
Ma il Duecento si annunciava con una guerra civile dei nobili, detti Scopazzati, contro i popolani, chiamati Mazzaperlini, preludio alle continue battaglie fra le fazioni che avrebbero insanguinato la città durante il secolo, ad opera delle potenti famiglie dei Fogliani, dei Sessi, dei Manfredi o dei Malapresi, i quali di volta in volta si facevano chiamare Guelfi e Ghibellini o Superiori e Inferiori. Nel 1290 Reggio, logorata dagli scontri interni e dai conflitti con le città vicine, passava sotto la signoria di Obizzo d’Este, segnalatosi ben presto per le sue feroci rappresaglie.
Non era che l’inizio: liberatisi degli Este nel 1306, il 27 gennaio, giorno di S. Grisostomo, annoverato da allora fra i patroni della città, i reggiani avrebbero subito in rapida successione la dominazione di Ghiberto da Correggio, del papa Giovanni XXII (dal 1326 al 1328), dei Fogliani e dei Gonzaga. I signori di Mantova si distinsero per la loro durezza e per avere contribuito in modo determinante a modificare l’impianto urbanistico di una parte della città, è raccolta, dalla fine del Xll secolo, entro l’esagono della nuova città muraria, con la costruzione della Cittadella. Neanche la signoria dei Gonzaga si annunciava però come definitiva, mentre la città sopravviveva come poteva alle epidemie del secolo, alle continue congiure dei nobili fuoriusciti e ai saccheggi da parte delle compagnie di ventura.
Nel 1371 Reggio veniva venduta per 50.000 fiorni d’oro da Feltrino Gonzaga a Barnabè Visconti, seguendo fino al 1402 le sorti della Vipera, comprese naturalmente le continue campagne di guerra dei signori di Milano.
Il nuovo secolo si apriva con una dominazione ancora diversa, quella del parmense Ottobono Terzi; ma nel 1409 Reggio tornava, e questa volta definitivamente, nell’orbita degli Este, che l’avrebbero tenuta, salvo brevi interruzioni, fino all’unità d’ltalia.
Cominciava così un periodo di pace e di lenta ripresa, mentre a Reggio si alternavano i governatori, il più illustre dei quali, Matteo Maria Boiardo, in carica dal 1487 al 1494, sarebbe salito in fama per i suoi meriti letterari piuttosto che per quelli amministrativi.
Un altro governatore di gran rinomanza, lo storico Francesco Guicciardini, avrebbe tenuto invece la città dal 1517 al 1523, durante la breve parentesi della dominazione pontificia, fino al ritorno di Alfonso I d’Este. Anche Reggio avrebbe vissuto allora la propria stagione rinascimentale, grazie al consolidarsi di più favorevoli congiunture economiche.
Agli inizi del ‘500 Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, Modena e Reggio, aveva patrocinato personalmente l’introduzione in città dell’arte della seta, destinata, nel corso del secolo, a trasformarsi in una forte occasione di arricchimento.
Questa generale condizione di benessere e di floridezza del mercato avrebbe influito sullo sviluppo delle arti e delle lettere  nel 1474 era nato in cittadella Ludovico Ariosto, ma questi sono anche gli anni del Correggio e di Lelio Orsi, degli scultori Bartolomeo Spani e Prospero Sogari detto il Clemente, dell’ economista Gasparo Scaruffi  e avrebbe prodotto un’autentica rinascita edilizia, patrocinata fra gli altri da Filippo Zoboli, vescovo di Comacchio, ed animata dall’architetto Antonio Casotti.
Questa specie di età dell’oro avrebbe avuto, come nel resto del paese, una vita effimera. Già il primo trentennio del XVII secolo sarebbe stato caratterizzato da una grave crisi economica e dalla peste; intanto Reggio, divenuta  con la perdita di Ferrara da parte degli Estensi e il trasferimento della capitale a Modena, la seconda città di un ducato fortemente ridotto d’importanza, iniziava la parabola alterna della decadenza e dei brevi periodi di ripresa, caratterizzata dal crescere dello scontento e dei rancori municipali.
Unica occasione di prestigio e centro della vita economica dell’intero territorio restava la fiera di maggio, istituita in onore della Beata Vergine della Ghiara è il primo miracolo era avvenuto nel 1596 al culto della quale era dedicato il grandioso tempio in ricostruzione dal 1597.
Nel 1655 Reggio avrebbe subito un memorabile assedio da parte degli spagnoli, seguendo, una guerra dopo l’altra, un cambiamento d’alleanza dopo l’altro, le oscillanti fortune del ducato.
Alla energica e oculata amministrazione della duchessa Laura Martinozzi, vedova di Alfonso d’Este, fece seguito, alla fine del secolo, un altro periodo di relativa tranquillità. Gli abitanti di Reggio, già decimati dalla peste del 1630 che aveva provocato la morte di 4.000 persone, tornavano ad essere oltre 15.000 nel 1695, mentre la città si arricchiva di scenografici edifici di culto secondo la moda del tempo.
Ma la prima metà del Settecento, travagliata, com’è noto, dalle guerre europee di successione, avrebbe riportato su tutto il territorio provinciale gli scontri, gli assedi, i passaggi di truppe e la miseria, mentre l’autorità ducale si faceva sentire o attraverso nuove gravezze per i sudditi o tramite i proclami di fuga dei sovrani. Dopo la pace di Acquisgrana del 1748, nessun combattimento avrebbe più interessato il territorio reggiano fino all’avvento di Napoleone; ma neppure la tardiva campagna di riforme promossa da Francesco III sarebbe servita a risollevare le sorti della città. Nella quale prima che il duca ne sopprimesse l’università, fiorivano gli studi scientifici ad opera di Lazzaro Spallanzani, Bonaventura Corti o di Antonio Vallisneri, i gabellieri si arricchivano e fra l’aristocrazia e la borghesia illuminate serpeggiavano quei germi di inquietudine che avrebbero, sul finire del secolo, acceso la miccia della rivoluzione.
In una città che nel 1785 contava 17.000 abitanti ma quasi 5.000 poveri, gli echi della Rivoluzione francese non tardarono a lasciare tracce, nonostante gli ultimi provvedimenti del Duca Ercole III tentassero di proporre aperture ad una società ed un’economia progressivamente sempre più bloccate. I primi segni di ribellione si ebbero già nel 1791 quando, col pretesto di una stagione teatrale infelice, i reggiani si sollevarono per la prima volta in tumulti. Era la prefigurazione di quanto sarebbe maturato con l’arrivo dei francesi nei primi mesi del 1796. Fuggito il Duca, insediato un Consiglio di reggenza, i nobili democratici reggiani (Antonio Re, Antonio Gabbi, Giovanni Paradisi) spinsero subito per ottenere i privilegi riservati alla città giù dal 1409, puntando ad una autonomia amministrativa incoraggiata da Napoleone in persona col quale i reggiani avevano già avviato contatti. L’estate fece maturare le tensioni con il potere provvisorio: il 20 agosto una rissa in città degenerò in nuovi tumulti di più ampie proporzioni che portarono all’assunzione del potere direttamente da parte del Senato della città. Nella notte fra il 25 e 26 agosto i reggiani innalzarono in Piazza Grande (attuale Piazza Parampolini) l’albero della libertà e apparvero ovunque le insegne della “Repubblica Reggiana”. Nell’ottobre poi, con l’apertura del ghetto ebraico prima e con lo scontro di Montechiarugolo poi, dove la Guardia civica reggiana si scontrò con 150 austriaci sbandati, riuscendone vincitrice, si completava la transizione verso un nuovo assetto istituzionale. L’episodio stesso, enfatizzato abilmente dagli stessi francesi (Napoleone fece dono alla città del bottino bellico e di una bandiera francese) e ricordato dal Foscolo nella sua Oda a Bonaparte liberatore, segna l’apertura di una nuova fase con la creazione della Repubblica Cispadana (formata dalle città di Reggio, Modena, Bologna e Ferrara) che riunì la propria Assemblea propria a Reggio dal 27 dicembre. Nella seduta del 7 gennaio il deputato di Lugo Giuseppe Compagnoni propose l’adozione del Tricolore bianco-rosso-verde (a bande orizzontali) come insegna dello repubblica “una, indivisibile e indipendente”.
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BREVE STORIA DI REGGIO EMILIA
Reggio dopo le giornate di gloria del 1796-1797 seguì poi le vicende legate all’alterna sorte delle armate francesi in Italia, quando la Repubblica Cispadana divenne Cisalpina (con l’ingresso di Milano, di Massa e della Garfagnana) fino alla costituzione della Repubblica Italiana (1802) e del Regno d’Italia celebrato da Napoleone in persona a Reggio nel luglio 1805. Nel nuovo Stato Reggio era inglobata come Dipartimento del Crostolo, godendo di una serie di riforme amministrative e sociali di notevole livello per quanto riguarda la giustizia, l’istruzione e l’assistenza. La parentesi napoleonica ebbe termine nell’aprile 1814 quando, con il ritorno del Duca, il passato sembrò riprendere il sopravvento. Cancellata la legislazione francese, fu reintrodotta quella estense del 1771, tutte le cariche tornarono ad essere di nomina ducale, mentre il Duca Francesco IV, succeduto ad Ercole III, poneva limiti anche all’istruzione, limitando l’accesso all’Università per «imporre un limite all’abuso delle scienze». Nel 1821 veniva istituito il Tribunale di stato di Rubiera per crimini di ribellione, tradimento e lesa maestà, nel 1828 veniva reintrodotta la censura preventiva sulla stampa e il teatro. Il Duca, che era stato accolto al suo ritorno dall’indifferenza delle città ma sostenuto dalle popolazioni rurali tradizionalmente legittimiste, cercò di avviare una politica di doppio binario, affiancando al ritorno ad un rigido controllo aperture sui temi dell’assistenza e dell’affermazione dello Stato nel contesto politico nazionale.
L’opposizione tentò a più riprese di raccogliersi in strutture organizzate sfruttando la collocazione geografica favorevole all’incontro fra gruppi e idee provenienti dallo Stato Pontificio (carboneria) dalla Lombardia (Carboneria, «Federati») e Piemonte («Sublimi Maestri Perfetti») ma l’efficacia della repressione Ducale spezzò più volte questi tentativi. Nel 1822 28 imputati reggiani furono processati e nove condannati a morte. Contumaci i compagni, l’unico a salire il patibolo fu don Giuseppe Andreoli, professore presso il Convitto di Correggio. Nel febbraio 1831 fu l’intero Stato ad essere scosso dalla ribellione, anche Reggio si sollevò disarmando le truppe ducali, mentre la contessa Giuditta Bellerio Sidoli (futura collaboratrice di Mazzini) faceva sventolare il Tricolore sul Palazzo del Comune. L’esperienza durò il volgere di un mese quando, sconfitti gli insorti a Rimini, fu riportato l’ordine nel Ducato. La repressione fu, questa volta, ben più dura: 212 condanne furono pronunciate mentre numerosi insorti sfuggirono all’arresto con il volontario esilio, scelta questa che accomunò numerosi patrioti reggiani sia democratici che liberali (Giovanni Grilenzoni, Giuseppe Lamberti-segretario di Mazzini-Giovanni Sidoli, Piergiacinto Terrachini, Antonio Panizzi-divenuto poi direttore della Biblioteca del British Museum).
Morto Francesco IV nel 1846 il figlio Francesco V accentuò la politica di affiancamento all’Austria anche sotto il profilo militare, elemento questo confermato dall’arrivo di truppe ungheresi a Reggio nel 1847. Ma l’evoluzione sociale ed economica sviluppatasi, nonostante la politica di rigido controllo estense, dopo il 1830 poneva il problema di una svolta politica ormai inevitabile. La frattura fra borghesia produttiva e corte, che rifiutava ogni azione riformatrice, portava ad una tensione continua su ogni singolo problema amministrativo o politico. Il fronte degli oppositori, diviso fra liberali moderati e filosabaudi e gruppi democratici filomazziniani, riuscì a trovare unità nelle giornate del marzo 1848 quando di nuovo la città fu in mano dei patrioti ed il Tricolore tornò a sventolare. Ma ancora una volta le campagne rimasero estranee ed insensibili al richiamo alla difesa della rivoluzione in atto, e la divisione fra moderati e democratici rallentò l’avvio di una riorganizzazione dello Stato. Per la prima volta si verificò la volontà dei cittadini all’annessione con il Piemonte e la vittoria dei «sì» fu schiacciante. Ma l’esperienza di autogoverno fu breve, il 9 agosto l’armistizio Salasco mise fine a questo abbozzo di esperienza democratica.
Il ritorno del Duca fu all’insegna non tanto della repressione (furono concesse amnistie) quanto della riorganizzazione dello Stato (fu separata finalmente la Finanza pubblica da quella Ducale), mentre anche il Ducato cercava un adeguamento con le necessità di modernizzazione (fu istituita una Lega Doganale con l’Austria e Parma, si costruì la ferrovia, nel 1852 venne istituita la Cassa di Risparmio, si rinnovavano i codici). Si operò anche per migliorare le condizioni di vita dei reggiani, ancora minacciati da carestie (molto grave quella del 1846) e da epidemie (il colera del 1855).
La II Guerra di Indipendenza giunse a sanzionare una situazione ormai anacronistica, il Ducato crollò sotto il peso degli avvenimenti senza particolari tumulti né violenze. Fuggito il Duca da Modena in giugno, il 27 luglio i reggiani conferivano la dittatura al Commissario regio Luigi Carlo Farini, mentre la città e la provincia erano rette da amministrazioni provvisorie che portarono al Plebiscito del marzo 1860 quando 50012 reggiani scelsero l’annessione al regno d’Italia e solo 77 la formazione di un regno separato. Le cerimonie e l’entusiasmo per la ritrovata libertà furono coronate dalla visita di Vittorio Emanuele II il 6 maggio, episodio che segna anche simbolicamente l’unione definitiva di Reggio alla nascente nazione italiana.
Proclamata l’Unità (marzo 1861) le forze politiche ripresero la loro dialettica e si riprese il confronto fra le posizioni dei tre gruppi organizzati: la sinistra democratica (mazziniani e repubblicani), il centro liberale, la destra reazionaria (duchisti e cattolici antiliberali). Le elezioni del 1867 e del 1870 videro un elettorato disorientato e sfiduciato, mentre la situazione economica si aggravò per la crisi finanziaria e la pressione fiscale aumentata oltre il sopportabile (alle vecchie tasse si erano aggiunte quelle dello stato unitario). I moti del macinato confermarono la frattura fra città e campagna, in una situazione in cui il ceto proprietario era il 70% del corpo elettorale. L’agricoltura, base ancora dell’economia reggiana, risentiva dei ritardi tecnici accumulati negli anni Cinquanta, la stessa forma di conduzione a mezzadria, se incentivava l’iniziativa dei conduttori impediva la nascita di una industria agraria strutturata. Le condizioni di vita rimanevano dure, soprattutto nelle campagne dove, negli anni Settanta si avviò un forte flusso migratorio verso l’estero. La sinistra, frammentata in varie componenti (democratica, repubblicana, mazziniana, garibaldina) iniziò a coagularsi intorno a Circoli e gruppi di matrice socialista e repubblicana con un programma fondato sul suffragio universale, l’istruzione laica e obbligatoria, l’associazione del capitale col lavoro.
Ma è nella organizzazione dei lavoratori e nella loro difesa che la sinistra trovò la massima coesione. La nascita delle prime società di mutuo soccorso e delle cooperative (per prime quelle di consumo) si accompagnava all’allargamento della base elettorale, che consentì fra il 1886 e il 1890 l’elezione al Parlamento dei primi quattro candidati delle sinistre (Prampolini, Maffei, Corbelli e Basetti). L’organizzazione sindacale e cooperativa si espandeva in maniera vertiginosa per rispondere anche alla gravissima crisi agraria di fine secolo. «La Giustizia» (1886), fondata da Camillo Prampolini, divenne la voce dei lavoratori reggiani che riuscirono nel breve volgere di un decennio a consolidare un’organizzazione forte e diffusa su tutto il territorio provinciale. Nel 1901 nasceva la Camera del Lavoro che aggregava 202 organizzazioni economiche con quasi 30.000 iscritti. La conquista del Comune di Reggio nelle elezioni del 1899 e la nomina a sindaco di Alberto Borciani furono il segno di un cambiamento epocale che mutò profondamente il volto della città. In quegli anni la crescita economica e demografica (la popolazione del Comune passa da 50.000 abitanti nel 1851 ai 70.000 del 1911) impose l’abbattimento delle vecchie mura (avviato già nel 1873) e l’inizio dell’espansione urbanistica verso il forese. L’amministrazione socialista avviò una serie di municipalizzazioni di servizi (farmacie, acqua, elettricità), mentre la Cooperative di Lavoro si organizzavano in Consorzio nel 1904. Dopo la parentesi della sconfitta elettorale del 1904-1907, il Comune socialista proseguì nella sua politica di innovazione sia nel settore scolastico che edilizio (la costruzione delle Case Operaie) mentre l’industria iniziava a consolidare la propria presenza nell’economia locale. La nascita delle OMI (Officine Meccaniche reggiane) ad opera di Giuseppe Menada nel 1901 era un segnale importante anche per il coinvolgimento nell’operazione di capitale non reggiani. La fabbrica che già nel 1908 occupava 1200 operai sarebbe diventata nel volgere di un trentennio la principale fabbrica della regione nel settore metalmeccanico e avrebbe rappresentato per decenni un punto fondamentale nell’assetto economico provinciale. Lo scoppio della prima guerra mondiale accelerò il processo di sviluppo del settore industriale sia per l’attività bellica che nella preparazione di manodopera specializzata che avrebbe contribuito in maniera decisiva allo sviluppo del settore meccanico agricolo. In parallelo si assisteva alla crescita altrettanto rapida del settore della trasformazione dei prodotti agricoli con la storica centralità del settore lattiero caseario, nel 1915 erano già attivi 763 caseifici in provincia, mentre le innovazioni colturali e zootecniche spingevano la provincia ai primi posti nella graduatoria economica regionale.
La fine del conflitto e l’acuirsi della scontro sociale furono vissuti drammaticamente nel reggiano dove la predominanza socialista fu confermata nelle elezioni del 1919. Ma questo predominio non fu sufficiente ad opporsi all’azione dei ceti agrari e industriali che trovarono alleati la piccola borghesia commerciale danneggiata dall’affermarsi della cooperazione di consumo. Il primo fascismo giunse a Reggio importato dalla bassa modenese e carpigiana. Lo squadrismo dilagò in breve nel reggiano provocando la caduta delle amministrazioni socialiste incapaci di una risposta sia politica che culturale. Fra omicidi e violenze fra il 1921 e il 1922 il fascismo conquistò la provincia, distinguendosi subito, sotto il profilo amministrativo, per lo smantellamento di tutte le conquiste realizzate dai Comuni (municipalizzazioni, assistenza, consumi). La realtà cooperativa era però ormai costitutiva del tessuto economico locale e il regime in via di formazione dovette confrontarsi con la realtà, accontentandosi di fascistizzare le strutture preesistenti.
Il periodo 1925-1935 fu contraddistinto dalla progressiva capillarizzazione dell’organizzazione fascista che si doveva confrontare con il problema della disoccupazione (aggravata dalla crisi del 1929) e della contemporanea modernizzazione dell’economia locale. Una serie di interventi contribuirono a consolidare le basi dell’industria reggiana: la nascita della Latterie Cooperative (1934) nel settore lattiero caseario e l’espansione delle OMI Reggiane con lo spostamento della produzione nel settore strategico (aerei) furono operazioni realizzate dal potere fascista in collaborazione con il capitale privato che avrebbero lasciato tracce profonde nell’economia reggiana. Il consenso al fascismo toccava i suoi vertici in occasione della conquista dell’Etiopia ma doveva comunque fare i conti con una opposizione clandestina (che da socialista si era trasformata in comunista) che rimaneva fortemente radicata in tutta la provincia. Gli arresti ricorrenti, le condanne a centinaia di anni di carcere o confino a reggiani erano la conferma di questa presenza conflittuale e alternativa che aveva radicati rapporti anche con i concittadini espatriati all’estero (in Francia in particolare) già nel corso degli anni venti. La guerra accelerò il disfacimento del regime: il razionamento dei beni di prima necessità (nel 1942 si arrivò a razioni quotidiane di 150 g. di pane al giorno/persona), l’inadeguatezza della macchina bellica fascista, il crollo dei fronti di guerra si ripercossero sulla tenuta del regime. Il grande corteo del 26 luglio 1943 che a Reggio salutò la caduta del fascismo e le feste in tutta la provincia ne furono la conferma. La strage del 28 luglio alle OMI Reggiane (9 operai uccisi dall’esercito) fu il primo segnale del difficile cammino che avrebbe condotto alla riconquista della libertà.
Dopo l’8 settembre il reggiano diviene luogo di formazione di bande partigiane. La prima, quella dei Fratelli Cervi, pagò con l’uccisione dei sette fratelli l’aver anticipato la lotta armata che comunque dilagò, nonostante l’esecuzione di don Pasquino Borghi e di altri otto patrioti. La lotta di liberazione nel reggiano assunse caratteri di massa, con quasi 10.000 partigiani riconosciuti di fronte a 625 caduti in combattimento o rappresaglie. La repressione condotta dai fascisti e dai tedeschi toccò punte di inaudita ferocia (Strage di Cervarolo, 20 marzo 1944, 23 morti; Strage di Bettola, 24 giugno 1944, 32 morti). Per la partecipazione alla Resistenza il Gonfalone della città di Reggio è stato insignito di medaglia d’oro al valor militare.
Il 25 aprile 1945 segna una svolta storica: si ricostituiscono le amministrazioni democratiche prima sotto la guida del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) che aveva condotto la lotta armata, poi con le prime elezioni del 1946 con amministrazioni democraticamente elette. Reggio vede subito il predominio del PCI (Partito Comunista Italiano) che aveva condotto sia la lotta antifascista che la Resistenza, ma può contare su forti individualità di carattere nazionale come il cattolico Giuseppe Dossetti e il liberale Meuccio Ruini.
La ricostruzione è un periodo di grandi difficoltà sia economiche che politiche per l’antagonismo del reggiano con l’indirizzo politico nazionale anticomunista che si consolida dopo le elezioni del 18 aprile 1948. La crisi delle OMI Reggiane degli anni 1950-51 se si risolve con una sconfitta sindacale prefigura lo sviluppo di una piccola e media industria meccanica diffusa che particolarmente negli anni Sessanta-settanta avrà i suoi momenti più felici, affiancandosi al settore tradizionale della trasformazione di prodotti agricoli. Sul finire degli anni ’60 Reggio è ormai una città a forte caratterizzazione industriale che tende a svilupparsi urbanisticamente secondo successivi Piani regolatori che cercano di indirizzare le linee di sviluppo. Parallelamente l’amministrazione pubblica, dove il PCI mantiene inalterata la propria egemonia, punta sul miglioramento delle condizioni di vita della popolazione favorendo lo sviluppo di una rete di servizi nei settori dell’assistenza, della cultura e dell’istruzione che particolarmente nel settore infantile raggiungerà vertici internazionali già negli anni ’80. Il benessere raggiunto con uno sviluppo equilibrato dei principali settori produttivi porta Reggio ai primi posti nelle classifiche nazionali per livelli di vita ma pone la necessità di nuovi sforzi per il futuro per mantenere e garantire i livelli di eccellenza raggiunti.
a cura di
Laura Artioli
Massimo Storchi

(Da: Guida del comune di Reggio Emilia, edizione 97/98, Alambra Editrice, Reggio Emilia 1997, pp. 3-22)