Kiflè, nell’intervista, parla della sua articolata esperienza di vita, a partire dalla giovinezza trascorsa nella natia Eritrea. Nel racconto che fa di sé, si contano spesso i riferimenti al “colonialismo etiopico” che molti giovani suoi connazionali, come del resto lui stesso, scelsero di fronteggiare arrivando ad organizzare una resistenza armata. Innanzitutto, nella disamina critica della definizione che Kiflé offre degli anni della controversa federazione tra Etiopia ed Eritrea preferiamo non addentrarci, perché andrebbe a toccare nervi tuttora scoperti sia sul fronte geopolitico che su quello umanitario. Precisiamo solo, senza nulla togliere alla generosità e all’acutezza di ragionamento del nostro ospite, che la sua è una posizione onesta, che si può comprendere alla luce delle scelte e delle vicissitudini che hanno plasmato la sua vita ed il suo pensiero.

Piuttosto, concedeteci due parole sull’oblio nella memoria collettiva che il secondo dopoguerra inflisse agli “Africani d’Italia” per eccellenza, ovvero agli abitanti dell’attuale Eritrea. Questa, infatti, fu la “colonia primigenia” su cui la giovane nazione italiana aveva proiettato la propria ambizione di potenza coloniale su suolo africano, con l’essenziale placet dell’impero britannico. Alla conferenza di Berlino del 1884, nel corso della quale gli stati europei si erano spartiti l’Africa con squadra e righello, infatti, l’Italia liberale aveva da poco acquisito la baia di Assab dalla compagnia privata Rubattino, primo nucleo di espansione del proprio dominio coloniale. L’anno successivo, millecinquecento bersaglieri occuparono militarmente Massaua; solo nel 1890 fu tuttavia sancita ufficialmente la nascita della Eritrea colonia. Terra d’oltremare che avrebbe dovuto accogliere famiglie italiane, avanguardie di pionieri che avrebbero fatto fruttare i fecondi altipiani. In realtà, sul fronte produttivo e finanziario, questa colonia non riuscì mai a divenire davvero autonoma né a costituire una formidabile fonte di materie prime per la madrepatria. Divenne però essenziale in due altri campi, quello dell’immaginario collettivo e quello del supporto militare agli sforzi bellici italiani nel Corno.

Come suggeriva lo storico Angelo Del Boca, l’Eritrea fu per l’Italia ciò che il Far West fu per i pionieri degli Stati Uniti in espansione nel XIX secolo: ovvero lo spazio dove incontrare l’esotico e il misterioso, dove affermare l’avanzamento della frontiera di civiltà, dove leggere la natura e la femminilità “altra” attraverso i medesimi paradigmi di eccesso e di pericolosità. Al contempo, senza gli Ascari, ovvero i combattenti eritrei, conoscitori del territorio e quantomeno poco disposti rispetto alle mire egemoniche dell’impero del Negus, l’Italia, liberale prima e fascista poi, non si sarebbe mai imbarcata nelle spedizioni per “pacificare” le popolazioni somale, né tantomeno nella brutale aggressione alla “Abissinia”.

Tra il 1890 e gli anni 1930, in realtà, furono molti i maschi italiani, senza famiglia al seguito, che vissero in Eritrea: funzionari, burocrati, militari, imprenditori, perditempo. Le relazioni con le giovani – a volte giovanissime – eritree divennero presto una brutale consuetudine, così come la presenza, nelle comunità, di bambini dalla pelle meno scura dei loro coetanei e, soprattutto, con nomi di chiara matrice italiana. L’emanazione delle leggi razziali, in vigore nell’Africa orientale italiana a partire dall’aprile del 1937, oltre a rendere illegali i rapporti “di indole coniugale tra cittadini e sudditi” e a riorganizzare le città sul criterio dell’apartheid spaziale, rese invisibili tanto le donne eritree legate a italiani quanto i loro figli. O meglio: i provvedimenti che delinerarono, per legge, una gerarchia razziale in tutti i territori dell’impero, declassarono eritrei e somali alla condizione di nativi, relegandoli quindi a uno status giuridico separato, che li condannava alla subordinazione e alla totale mancanza di diritti.

La fine della seconda guerra mondiale portò in dote agli eritrei un ennesimo duplice tradimento da parte degli italiani. In primis, essi non furono mai, come d’altronde nemmeno i somali e i libici, davvero ricompresi nella storia, tantomeno nella memoria pubblica, di questo paese. A volte, persino la storiografia, come acutamente rilevato da Calchi Novati, nega a questi popoli tanto una dimensione storica più ampia quanto il ruolo da loro giocato nella vita dello stato italiano. Con il trattato di pace del 1947, l’Italia rinunciò alla sovranità sull’Eritrea, con l’ambizione tuttavia di ottenerne l’amministrazione fiduciaria, obiettivo che non fu raggiunto in parte per la mancanza di prospettive concrete, sia per le pretese di matrice neocolonialista messe in campo dalla diplomazia della giovane repubblica. Senza contare le resistenze dell’establishment coloniale ancora potente, così come le incertezze sulla decolonizzazione espresse anche dalle forze progressiste del paese. Alla fine, il lavoro di varie commissioni d’Inchiesta, istituite sotto l’egida delle Nazioni Unite, portò alla sostanziale sconfitta della posizione italiana, che prevedeva l’indipendenza degli eritrei e la creazione di uno stato autonomo, sorte invece toccata a Libia e Somalia, che divennero indipendenti nel decennio 1950. Ecco come nacque la federazione tra Eritrea ed Etiopia sotto la corona imperiale del Negus, funestata dall’auspicio di una cattiva stella, frutto della combinazione di due fattori. Da un lato, le pressioni dell’Etiopia, che, da paese aggredito dall’Italia fascista, rivendicava prerogative territoriali e diritti sul territorio eritreo; d’altro canto, anche la marcata inconsistenza sul fronte geopolitico dell’Italia uscita sconfitta, ma almeno per metà alleata dei vincitori, dalla seconda guerra mondiale, giocò un ruolo nel tracciare il destino del popolo eritreo.Quando, nel 1962, Haile Selassie abolì lo statuto federale, riducendo l’Eritrea ad una provincia etiope, ecco che cominciarono ad affermarsi rapidamente movimenti indipendentisti. Tema del quale accenna spesso il nostro Kiflé.

Al di là di queste brevi e quantomeno incomplete note (vi siete accorti che non ho menzionato Adua?), vi offriamo qualche nota bibliografica, senza alcuna pretesa di esaustività.

In primis, i pionieristici e imprescindibili lavori di Angelo Del Boca, di Gianpaolo Calchi Novati e di Nicola Labanca sapranno certamente rispondere ai vostri dubbi e alle vostre curiosità.

Per chi volesse approfondire, invece, la sorte dei bambini italo-africani nell’Italia repubblicana, consigliamo: Silvana Patriarca “Il colore della Repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista”.

Da ultimo, e se ci si volesse rivolgere invece alla letteratura? Solo qualche spunto, ancora: Ennio Flaiano, “Tempo di uccidere”, per una riflessione quasi contemporanea al contesto narrato; i romanzi di Carlo Lucarelli dedicati alla vita di colonia, a cominciare da “L’ottava vibrazione” e, infine, un giallo, tra archivi e fiction, ambientato in Africa Orientale Italiana, in piena epoca fascista, ovvero “I fantasmi dell’Impero”, scritto da Domenico Dodaro, Luigi Panella e Marco Consentino.