Intervista raccolta nel 2020

La migrazione è donna

Dal 2008, l’immigrazione femminile in Italia ha superato in percentuale quella maschile, toccando il 52% del totale. Nel nostro mondo globalizzato, sono le donne che migrano a tessere reti transnazionali, a sfidare e rovesciare lo status loro imposto nelle società di partenza, a evidenziare e spesso sfidare i rapporti di potere nel quale il genere femminile è delineato (e impigliato). Secondo le categorie sociologiche, esse  possono essere subalterne al progetto migratorio del marito, oppure breadwinners (ovvero, letteralmente, quelle che portano il pane in tavola, sudandoselo). Ciò che importa, in ogni caso, è non dimenticare mai l’impatto plurimo della loro scelta migratoria sulle due società alle quali sono connesse. Capita infatti che, a contatto con il nuovo contesto, esse elaborino una inedita immagine di sè e del proprio posto nel mondo – anche accedendo al mercato del lavoro e acquisendo in tal modo una piattaforma economica per l’indipendenza. Spesso le donne sono apripista di altre migrazioni: si inseriscono in un contesto socio-economico, non solo con lo scopo di ricavare spazio per sé, bensì anche per uno o più familiari – per i quali, al momento dell’arrivo, saranno i punti di riferimento essenziali. Le donne che emigrano coltivano meglio dei loro “colleghi” uomini le relazioni con le comunità di loro connazionali presenti nel luogo di approdo, così come imparano ad accedere a quelli che sono i servizi sociali/educativi/sanitari erogati dalla dimensione pubblica. In tal modo, accanto ad una rete di supporto informale, queste donne possono ricorrere a prestazioni sociali di base, che divengono al contempo fattori di inclusione e di integrazione nella società di accoglienza.

La migrazione femminile è uno dei processi strutturanti della contemporaneità, perché intreccia in sè fenomeni di ri-definizione del mercato del lavoro con le trasformazioni individuali e collettive che la “liquidità” esistenziale di questi decenni determina. Basti pensare alla presenza essenziale delle donne straniere nel campo della cura e dell’assistenza di anziani e bambini. Da un lato, questo fenomeno affonda le radici nell’affermazione di un modello di famiglia atomizzato; dall’altro, esso è riconducibile, paradossalmente, alla ricontestualizzazione della donna italiana anche al di fuori dell’ambito casalingo, che ha di fatto lasciato scoperto l’ambito della cura dei membri più fragili della famiglia.

Il primo impatto con il fenomeno migratorio nel nostro paese si ebbe, dagli anni settanta, proprio grazie all’arrivo di donne che, appoggiandosi soprattutto alla chiesa cattolica e al sistema dei visti turistici, lasciarono Filippine, Equador o Eritrea per venire a lavorare qui, soprattutto in qualità di collaboratrici domestiche. Questo fenomeno era, d’altronde, l’altra faccia dello sviluppo economico che aveva da poco sperimentato il nostro paese e, più in generale, di fenomeni di ristrutturazione del mercato internazionale del lavoro. In ogni caso, già in quella prima fase, le migranti si ponevano in un’ottica di emancipazione e di progetto di vita autonomo, pur restando collegate alle famiglie di origine e non beneficiando, di fatto, di alcun percorso di inclusione nel contesto di arrivo. Soltanto negli anni novanta, tuttavia, la componente femminile dell’immigrazione in Italia manifestò una decisa crescita e iniziò ad esser fotografata dalle statistiche – facendola così emergere spesso dalla zona opaca della clandestinità. Il crollo dei regimi dell’est Europa prima e la guerra in ex-Yugoslavia (con lo strascico di rifugiati che portò con sé) determinarono infine un incremento della presenza di donne provenienti dal contesto continentale, le quali andarono ad affiancarsi alle asiatiche ed africane già da tempo presenti su suolo italiano. D’altronde, in quel decennio, le donne migranti si cimentarono sempre più spesso in inediti settori lavorativi, come l’impiego in piccole aziende o l’avvio di imprese cooperative.

Difficile tratteggiare le migrazioni femminili in Italia senza cadere nella generalizzazione. Ciò che si può affermare è, tuttavia, che ogni donna migrante porta con sé strategie adattive rispetto alla società di arrivo, ma che, al tempo stesso, è motore e fulcro di complesse dinamiche culturali e sociali nelle quali ridefinisce la sua stessa identità.