Intervista raccolta nel 2019

Cibo

Quando ci nutriamo, non stiamo semplicemente rispondendo allo stimolo della fame o a un attacco acuto di gola, ma stiamo ingerendo anche un aspetto essenziale e complesso della cultura umana. Infatti, il cibo è anche una piattaforma simbolica primaria, che tiene insieme la dimensione emozionale e quella cognitiva, la comunità e il singolo, il passato e il presente. Ci consente di ricordare, ci permette di orientarci nel mondo. Può essere rifiutato, riletto, perduto. Ecco allora che il migrante mette in luce molti degli aspetti critici del cibo dal punto di vista culturale. Intanto, proprio la parola cultura deriva dall’attività primaria di produzione del cibo, ovvero dall’agricoltura: il cultus, ciò che è appunto coltivato dall’essere umano, è opposto a ciò che coltivato non è, alla selva (spesso oscura). Noi contro voi, insomma. Non a caso, forse Philippe Daverio ha dedicato un saggio al ruolo dei sensi  e del gusto in particolare , nella costruzione storica della cittadinanza europea. Le culture gastronomiche sono tradizionaliste, ma flessibili. Infatti, spesso si modificano entrando in contatto con nuovi prodotti o nuove abitudini di consumo, incrociate grazie ai commerci o a popoli che si sono messi in cammino. Spesso il cibo diviene emblema identitario  e qui mi sovviene la prima lezione di antropologia a cui assistetti. Il docente, torinese, parlava della bagnacauda, uno dei piatti piemontesi più noti: eppure, aggiungeva, nessuno dei suoi ingredienti è originario di questa regione. Da qui, forse, anche una piccola riflessione sui miti delle origini, visto che cultura europea, anche gastronomica, si fonda sull’incontro, nel V secolo d. C, della civiltà mediterranea e di quella della birra – ovvero degli eredi dell’impero romano e dei popoli in migrazione (solo la storiografia italiana parla di invasioni barbariche). Anche qui, migranti.

In effetti, appunto per quanto si diceva all’inizio, le attività di cucinare e consumare cibo stanno all’incrocio di svariate dimensioni dell’essere umano, inteso al tempo stesso come individuo e come membro di una collettività. Al di là degli stereotipi, sono svariati i fattori che influiscono sul mantenimento di un dato regime alimentare , o di un solo ingrediente o pietanza , da parte dei migranti. Tra queste variabili, ci sono: l’integrazione di una comunità proveniente dal proprio paese nel paese di approdo, la reperibilità di alcuni prodotti (anche se la globalizzazione ha, spesso, invalidato questa affermazione), inedite forme di socialità, il senso del tempo che la nuova quotidianità impone. Il tempo, fattore essenziale per il cibo: prepararlo e fruirlo ( questa affermazione non vale certo solo per gli africani), implica una ritualità precisa, gesti ripetuti, capacità di attesa, condivisione pregustata. Ecco allora che si ricade nella vita di tutti i giorni e la scelta relativa a quali cibi consumare, con chi e in che modo non può essere generalizzata. Ciò che è indubbio, tuttavia, è che il cibo è una questione troppo seria per poterla trattare in poche righe.

Tuttavia, a volte il cibo si tramuta nell’estrema vendetta degli sconfitti. Basti pensare alla cucina creola in Luisiana, nella quale le eredità gastronomiche degli schiavi africani (più che migranti, deportati) e dei nativi americani (in buona parte sterminati) hanno soverchiato e stravolto i capisaldi della cucina europea. Hanno dato vita a piatti memorabili e a quella musica che avrebbe, un giorno, simboleggiato la rivolta: il jazz.