Intervista raccolta nel 2020

Luogo

C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. (…) Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

Anche per il protagonista del romanzo “La luna e i falò”, di Cesare Pavese, Anguilla, migrante che ha fatto fortuna in America, diventa essenziale il ritorno ad un luogo che, per lui, nonostante tutto, racchiude un orizzonte di senso. Un luogo che possa chiamare, pur con tutte le cautele e le perplessità, casa. Ma che cos’è un luogo?

Innanzitutto, seguendo il gusto oppositivo, proviamo a definire concettualmente cosa sia un non-luogo.

Secondo l’etnologo francese Marc Augè, questo fenomeno è frutto della nostra contemporaneità, tratteggiata come in polvere dall’antropologo Arjun Appadurai, o liquida secondo il sociologo Zygmunt Bauman. La globalizzazione, con il vortice centrifugo impresso alle società e agli individui, negli ultimi decenni ha generato e moltiplicato spazi che si connotano come di transito, precari, privi di quegli agganci simbolici tali da permettere alle persone di trovare significati che nutrano la propria vita. Non-luoghi sono i grandi aeroporti internazionali e le megalopoli dell’era post-industriale, ma anche gli enormi campi profughi che punteggiano molte aree del pianeta. Allora, di contro, ecco che un luogo non è semplicemente uno spazio di consumo o di passaggio o di inerzia. Piuttosto, esso è ordinato secondo i canoni della società che lo plasma, fornisce punti di riferimento culturali e comportamentali agli individui che lo abitano e che, come già accennato, vi si trovano riserve di simboli e conoscenze per orientarsi nel mondo. Un luogo alimenta le identità dei singoli e delle comunità, in un processo dinamico e al tempo stesso  radicato nel passato e alle consuetudini. Su di esso, appunto perché frutto della stratificazione della storia che lo ha costituito, si incardina spesso la memoria collettiva e individuale. Una pineta o la facciata di un palazzo rinascimentale, infatti, possono divenire ottime piattaforme alle quali ancorare discorsi e pratiche sociali che si interroghino su quanto di ciò che è accaduto in passato sia importante per comprendere il presente. E quanto incida sulla direzione da imprimere al futuro. Nei luoghi, gli individui possono dunque ravvisare il contraltare tangibile di mappe sociali valide per il presente, eppure connesse alla catena di comunità che su quel territorio hanno insistito, vissuto, disseminato storie.

Un’ultima considerazione, in questa breve riflessione, dettata dai tempi grami che stiamo attraversando. Per tutto ciò che ho detto, la socialità stessa trova nei luoghi un’espressione piena ed essenziale. Quale luogo migliore per incontrarsi se non quello forgiato da migliaia di passi di epoche differenti e dall’eco di voci alternate a silenzi? Quale, se non quello in cui si sono sovrapposti i frutti di molteplici attività umane? O, ancora, quale migliore grumo di identità che un paesaggio con il quale gli esseri umani sono venuti a patto, non potendolo che scalfire? Le risposte, ovviamente, le lascio ai lettori. Chissà che non ci si trovi in qualche piazza a parlarne insieme, prima o poi.