MASTROGREGORI, I due prigionieri. Gramsci, Moro e la storia del Novecento italiano, Marietti 1820, Genova 2008, pp. 340, 22 euro

Il lavoro di Massimo Mastrogregori, nella sua chiarezza espositiva, dovuta senz’altro alla sua origine di lezioni universitarie, non solo offre spunti di acuta riflessione sulle condizioni dei prigionieri Gramsci e Moro, ma al contempo delineando sinteticamente i loro profili, e biografici e di pensiero, disegna il contesto storico in cui essi vissero. L’uno prigioniero delle carceri fasciste, il secondo prigioniero-ostaggio dei terroristi delle Brigate rosse.

I due prigionieri, infatti, è un saggio di storia comparata che dei due uomini politici «offre un ritratto, un’analisi del contesto storico e un’interpretazione dei testi che scrissero nel carcere: Quaderni e Lettere di Gramsci, Memoriale e lettere di Moro» (p. 7).

Intenti rispettati in pieno e, direi, superati. Noi aggiungeremmo che, grazie all’ampio apparato di note critico-bibliografiche in cui sono indicati percorsi di lettura e di approfondimento sulle due figure di intellettuali-uomini d’azione unito, come si diceva, alla chiarezza espositiva anche il neofita riesce a raccapezzarsi. Nel senso che, alla fine del «viaggio» nella storia dell’Italia del Novecento, l’ipotetico neofita sa chi era Gramsci e sa chi era Moro, e soprattutto si rende conto dell’Italia e monarchico-fascista e repubblicana. Del fascismo e del comunismo italiano, visto, giustamente, attraverso le lenti della Russia rivoluzianaria e della relazione fra essa, il pci e Gramsci in un intreccio non sempre limpido. Dell’Italia repubblicana, di cui Moro fu un artefice. Eletto alla Costituente, nelle liste della dc, fece parte della commissione dei 75 e del comitato di 18 persone che scrisse il testo della Costituzione. Lavoro costituente, che per Moro e, in altri contesti, per tanti altri giovani intellettuali passati attraverso il fascismo, furono la palestra per la democrazia.

«Fu per lui [Moro] – scrive l’A. – un’esperienza importantissima, assolutamente fondativa. Qui c’è, indubbiamente, una frattura. Nasce qualcosa di nuovo, questa è storia nuova rispetto alla formazione cattolica e fascista di Moro. È in questo momento, alla Costituente, che nasce il Moro che pensa la democrazia» (pp. 87-88)

Aspetto non indifferente per la storia successiva della giovane repubblica. Il passaggio dal centrismo demoscristiano degli anni ’50 all’ipotesi di governo con il partito socialista vide il sanguinoso luglio ’60 con il tentativo autoritario di Tambroni, poi sconfitto; l’estate del ’64 con il piano golpista “Solo”, che al centro sinistra voleva mettere la parola fine, e che Moro, riuscì ad impedire, sacrificando, però, le potenzialità riformatrici dell’accordo coi socialisti di Nenni. Infine, il tragico epilogo con il suo sequestro avvenuto, il 16 marzo 1978, alla vigilia di un passaggio storico: l’ingresso del pci nell’area di governo. Infatti, «il problema fondamentale degli anni ’ 70, visto dalla fine degli anni ’60, è che cosa fare con i comunisti. La soluzione di Moro è quella di aprire, così com’era stato fatto coi socialisti, anche ai comunisti, tendendoli però sotto controllo». (p. 101)

Ma chi sono i carcerieri di Moro, presidente della dc? Solo le br? «La domanda – scrive l’A. – riguarda anche le responsabilità, come nel caso di Gramsci, non di chi improgiona il dirigente politico, ma di chi non fa abbastanza per liberarlo, di chi lo tiene in carcere … [Come nel caso di Gramsci] anche nel caso di Moro ci si può chiedere se non ci sono stati anche altri carcerieri, oltre alle br [come per Gramsci, che oltre al fascismo anche il partito italiano e quello russo per le note vicende del dissenso del Sardo nel ’26, non lo volevano libero] egli chiede in parte delle sue lettere, uno scambio di prigionieri, che fu rifiutato dal fronte della fermezza e discusso da quello della trattativa (pp. 153-54) … [come Gramsci che] dall’inizio alla fine … continuerà a pensare che una possibilità sarebbe quella di essere scambiato con altri prigionieri – in ciò si comporta proprio come Moro, almeno in apparenza» (p. 232)