Intervista a Piero Terracina

tratto da www.liceomamiani.it

Premessa storica

Sono Piero Terracina, ho 70 anni e sono stato deportato ad Auschwitz quando avevo 15 anni. Sono stato deportato ad Auschwitz con l’unica colpa di essere uno jude, cioè un sottouomo che doveva scomparire dalla terra, perché questo era il progetto della Germania nazista che aveva decretato la fine del popolo ebraico. Gli ebrei dovevano scomparire dalla faccia della terra. Già era cominciata prima sia la persecuzione sia gli eccidi degli ebrei, comunque il decreto è del 20 gennaio 1942 quando fu indetta la conferenza del Wannsee (sobborgo di Berlino) il cui tema era “soluzione finale al problema ebraico”. La conferenza la presiedeva Heydrich, c’era Eichmann che fungeva da segretario, ci partecipavano parecchi funzionari del partito nazista, del ministero degli esteri, delle SS, ecc. Appunto in questa conferenza fu decretata la “soluzione finale” dei problema ebraico. Per fortuna due mesi dopo Heydrich morì in seguito ad un attentato fatto dai partigiani cecoslovacchi. I campi di concentramento esistevano, i campi di sterminio cominciavano a costruirli. Il primo campo di concentramento, che era stato fatto dai nazisti per gli oppositori politici; è nato nel 1933, 50 giorni dopo che Hitler aveva avuto l’incarico di cancelliere. E’ cominciato con il campo di Dachau e poi ne sono stati costruiti un’infinità. In tutta la Germania hanno costruito una rete di campi di concentramento, di lavoro, di sterminio. Nei campi di sterminio purtroppo i prigionieri lavoravano fin quando erano in condizioni di farlo, e poi, generalmente, venivano fatti morire. Gli ebrei venivano fatti morire con il gas, i non ebrei morivano ugualmente, per le sevizie, o per la scarsa alimentazione o per tutto quello che succedeva nei campi.

Pensate che i morti nei campi in Germania sono stati 11 milioni, di cui sei milioni di ebrei. Naturalmente la deportazione degli ebrei aveva una sua specificità perché, mentre gli altri potevano morire, gli ebrei dovevano morire. Questa era la differenza. Per gli ebrei esistevano le camere a gas, unicamente per loro. In un secondo momento, nell’estate del 1944, purtroppo anche per gli zingari fu decretata la stessa “soluzione finale”. Li hanno mandati a morire nelle camere a gas. Ebrei e zingari morivano per gas, gli altri potevano morire.

Altra differenza era che ebrei e zingari venivano deportati a famiglie complete, donne, bambini, vecchi, malati, lattanti, tutti venivano deportati. Gli altri che venivano deportati cioè i politici, erano gli oppositori, quindi avevano una causa nobile, sapevano perfettamente i rischi a cui andavano incontro. Essendo oppositori del nazismo conoscevano i rischi che correvano, era quindi una loro scelta. Per gli ebrei no. Venivano razziati così com’erano, con l’unica colpa di essere ebrei.

 

Dopo le lezzi razziali

Fino al 1944, momento in cui sono stato deportato, ho seguito la sorte di tutti gli altri.

Nel 1938, all’emanazione delle leggi razziali, io fui letteralmente cacciato dalla scuola in cui stavo.

Frequentavo una scuola a Monteverde in cui sembrava che i ragazzi ebrei potessero formare delle classi di soli ebrei e quindi, continuare a frequentare la scuola. Invece è iniziato l’anno scolastico, non si era raggiunto il numero sufficiente per cui una mattina venni letteralmente cacciato fuori della scuola. L’insegnante fece l’appello, non chiamò il mio nome e poi mi fece uscire perché ero ebreo. Un commento a questo quale può essere? Ora, io mi ricordo soltanto che ero parte di una famiglia normale e come in tutte le famiglie normali sono i genitori che premono perché i figli studino. lo mi ricordo particolarmente mia madre che mi diceva sempre, mi esortava a studiare, perché diceva che per riuscire nella vita bisognava prima riuscire nello studio. Quindi per me fu, come credo anche per tutti gli altri che hanno subito la stessa cosa, un colpo tremendo. Mi domandavo “Se io non posso studiare, cosa potrò mai combinare nella vita?”. Mi vedevo già da grande che avrei fatto una professione e invece mi crollò il mondo addosso perché mi vedevo già costretto a fare i mestieri più umili. Invece fu organizzata la scuola ebraica in pochissimo tempo. Non è stata una disgrazia cambiare scuola. La scuola era una scuola di alto livello perché insieme agli studenti erano stati cacciati dalle scuole di Stato anche i docenti, e quindi c’era una grande scelta di docenti che facevano le lezioni a noi bambini e ragazzi. Addirittura docenti universitari che per fare qualche cosa venivano a fare scuola a noi. E poi c’era una grande motivazione, cioè noi dovevamo dimostrare di non essere inferiori agli altri. E qui si esercitava una carica che indubbiamente nelle scuole statali non esisteva, forse non esiste nemmeno oggi. Da questo punto di vista, direi che la scuola ebraica è stata una scuola ottima. Mi ricordo sempre il preside di questa scuola, il prof. Cimino che non era ebreo, era stato mandato dal ministero per presiedere questa scuola ed era un uomo eccezionale sotto tutti i punti di vista. Era lui che, non ebreo, ci esortava a studiare perché dovevamo dimostrare che sapevamo di non essere inferiori a nessuno.

Io facevo la quinta elementare, nel ’38 avevo 10 anni, poi ho cominciato le medie. Non c’era il liceo, ma l’istituto tecnico. Le elementari già esistevano ma avevano dovuto allargarle per il gran numero di bambini ebrei. Hanno organizzato dal niente la scuola media inferiore e quella superiore. E questa è stata la scuola ebraica.

 

L’occupazione tedesca

La guerra, I’8 settembre, prima anzi il 25 luglio 1943, la caduta del fascismo, 1’8 settembre, l’occupazione tedesca.

E lì cominciarono, cioè i guai erano già cominciati con il fascismo e le leggi razziali, però lì veramente iniziò il periodo più nero per la storia dell’umanità: la caccia all’ebreo. A Roma la caccia all’ebreo cominciò esattamente il 16 ottobre 1943 quando ci fu la grande razzia degli ebrei romani. Cioè i tedeschi entrarono nel ghetto di Roma, lo circondarono, andarono casa per casa a prendere tutti gli ebrei e presero tutti: malati, bambini, vecchi.

Noi non abitavamo nel ghetto, fummo avvisati e dovemmo immediatamente lasciare la nostra casa. Trovammo ospitalità per qualche giorno da un amico di mio padre, ma questi non poteva, non aveva proprio lo spazio materiale per ospitare, tanto più che noi in famiglia eravamo sette persone. Fino a poco tempo prima eravamo in otto, poi era venuta a mancare mia nonna ed eravamo in sette. C’era con noi mio nonno nato nel 1860, aveva allora 84 anni. C’erano i miei genitori, c’ero io che avevo due fratelli e una sorella più grandi di me.

Cercammo rifugio ovunque fosse possibile. Ricordo che proprio io e mio padre andammo in giro per vari conventi su a Monteverde e peraltro trovammo qualcuno che era disposto ad ospitarci, soltanto che, cosa del resto giusta, anche loro non avevano la possibilità di mantenerci. Avremmo dovuto pagare una retta, ma erano già cominciate delle difficoltà economiche perché mio padre aveva dovuto limitare la sua attività che, fino a poco tempo prima, era stata l’unico sostentamento della famiglia, quindi non è che avessimo delle grandi risorse. Non potendo lavorare, dovendo stare nascosti, non avevamo la possibilità di pagare qualcuno che ci mantenesse. Dovevamo procurarci anche i mezzi per vivere. Trovammo a Monteverde, in affitto, un appartamento all’ottavo piano di un palazzo e li andarono i miei genitori di mia sorella. I miei nonni (mia nonna era ancora viva) furono ospitati nello stesso palazzo nella casa del portiere. (Un eroe indubbiamente, perché se avessero scoperto che ospitava degli ebrei avrebbe corso dei brutti rischi). Io e i miei fratelli trovammo uno scantinato. Era una cantina dove generalmente c’era lo scarico del carbone e in una specie di antro che c’era nello scivolo che dalla strada scendeva verso questa cantina c’era uno slargo. Mettemmo delle assi e noi andammo a vivere lì, la sera perché il giorno dovevamo uscire. Dovevamo uscire anche perché bisognava salire su nell’appartamento dov’erano i miei genitori per tutto. In cantina non c’era nemmeno un gabinetto, una doccia, non c’era niente, per cui dovevamo necessariamente salire a turno se non altro per lavarci, per cambiare la biancheria, tutte queste cose. Durante la giornata uscivamo e stavamo in giro vagando per la città.

 

La cattura

In questo modo arrivammo fino al 7 aprile 1944. La sera del 7 aprile 1944 iniziava la Pasqua ebraica. E’ una festa per noi ebrei molto importante perché è la festa della libertà, ricorda l’uscita degli ebrei dall’Egitto, la fine della schiavitù. L’avevamo sempre solennizzata. Avevamo fatto il Seder, cioè la cena pasquale, fino ad allora tutti quanti insieme. E quel giorno mio padre disse “Perché anche quest’anno… sono passati ormai sette mesi dall’occupazione tedesca non è successo niente, quindi per questa sera stiamo tutti quanti insieme.”. Proprio quella sera a noi si era aggiunto uno zio che era venuto per fare gli auguri di pasqua perché aveva saputo che avremmo fatto la cena pasquale tutti insieme ed era voluto rimanere. Mi ricordo che lui si era rifugiato nella parrocchia di S. Benedetto a Roma, nel quartiere ostiense e rimase pure lui con noi. Mentre stavamo cenando bussarono alla porta e andammo ad aprire. Entrarono subito tre SS. In quel preciso momento non urlarono niente. Ci dissero di prendere qualche coperta, qualche maglione e soprattutto di prendere soldi e gioielli perché dove saremmo andati avrebbero potuto servirci. Noi, mi ricordo che pregammo, scongiurammo di lasciare almeno mio nonno. Mi ricordo che mio padre disse anche “Ma che vi portate via a fare un vecchio, non potrà mai lavorare, non sarà mai in grado di lavorare”. Noi pensavamo che ci portassero in qualche posto a lavorare per la grande Germania, non si pensava assolutamente a quello che sarebbe stato, nessuno lo sapeva.

Sapevamo che gli ebrei venivano rastrellati ma quello che avveniva dopo, nessuno lo sapeva. Non ci fu niente da fare. Ci fecero scendere gli otto piani a piedi, al portone c’era un’autoambulanza che ci aspettava e c’erano due fascisti. Italiani come noi, e mia sorella ne riconobbe uno. Era un giovane, lei era una ragazza, non aveva 21 anni ed era molto bella. La mattina era uscita per fare gli acquisti per quello che serviva, era stata seguita da questo giovane, naturalmente in borghese. Quella sera invece, era in divisa. Le si era affiancato, le aveva rivolto qualche complimento, gli aveva chiesto se poteva accompagnarla. Cose che capitano di frequente, anche oggi penso. Lei non gli dette retta, non gli dette ascolto, continuò per la sua strada. Ma questo era il delatore che voleva solo sapere dove stava per denunciarci. Ora dovete sapere che chi denunciava un ebreo veniva ricompensato con un premio di 5000 lire. Era una bella cifra 5000 allora. Allora uno stipendio medio poteva essere di 1000 1200 lire, quindi pensate 5000 lire che potevano essere. E noi eravamo in otto, con mio zio eravamo in otto.

Il più anziano di questi due fascisti si avvicinò a mio padre e disse “Se hai gioielli dalli a noi o dicci dove li hai nascosti perché noi sappiamo come si possono corrompere i tedeschi quindi certamente domani sarete fuori.”. Non solo non avevamo niente, neppure, probabilmente, gli avremmo detto niente. Quindi erano non solo delatori ma anche sciacalli, questo per dire di che pasta erano fatti i fascisti della Repubblica di Salò.

 

Il carcere

Pochi minuti di tragitto e arrivammo a Regina Coeli. Si aprirono le porte di un carcere, un’esperienza terribile credo per qualsiasi persona, forse per i miei 15 anni era ancora peggio. Penso che sia terribile per chiunque varchi il cancello di un carcere.

Ci schierarono faccia al muro davanti all’ufficio matricola. Dovevamo essere schedati come qualsiasi delinquente, qualsiasi persona arrestata entra in carcere deve essere registrata, e noi eravamo faccia al muro con l’ordine di non parlare. E invece mio padre sentì il bisogno di rivolgerci qualche parola. Mi ricordo che si rivolse a noi figli maschi, perché tra l’altro mia madre e mia sorella stavano già da un’altra parte. Mi ricordo che disse “Ragazzi  evidentemente aveva avuto la percezione che stavamo veramente cadendo in un abisso   ragazzi  intanto ci chiese perdono, non so di cosa   ragazzi ho una raccomandazione da farvi: non perdete mai la dignità di esseri umani.”. Questo è stato il suo messaggio. Aveva capito perfettamente che lì il rischio maggiore era quello di perdere la dignità. Dignità di esseri umani che poi non siamo stati in grado assolutamente di mantenere.

Volevo specificare una cosa, secondo me, importante. Nel carcere c’è tanta umanità, c’è tanta solidarietà. Ora io mi ricordo che me e mio padre (che stava sempre vicino a me che ero il più piccolo e pensava fossi quello che aveva più necessità di protezione) ci misero in una cella insieme ad altri tre detenuti. Siamo stati oggetto di tutte le attenzioni possibili da questi tre detenuti. Adesso non so perché fossero in carcere, ricordo che due di loro erano stati arrestati insieme perché li avevano trovati allo scado della stazione di S. Lorenzo e stavano rubando del filo di rame. Loro avevano detto ai tedeschi che rubavano perché avevano bisogno di mangiare, quindi per rivendere quel filo di rame che gli avrebbe dato qualche soldo. Ma i tedeschi li avevano accusati di sabotaggio e quindi anche loro rischiavano di morire. Quale fosse la versione esatta sinceramente non lo so, se fossero dei ladri o se fossero dei partigiani che andavano a sabotare i tedeschi. Comunque posso dire che nel carcere c’è stata tanta solidarietà, almeno nei nostri confronti.

 

La deportazione

Dopo qualche giorno di permanenza nel carcere di regina Coeli ci caricarono su dei camion, ammassati sui camion, camion pieni. Non è che nei camion ci fosse la possibilità di stare seduti o sdraiati, c’erano i tendoni sopra questi camion. Qualcuno era appoggiato alla sponda ma la maggior parte stavano in piedi. Sulla sponda posteriore dei camion c’erano due SS con i mitra imbracciati e nessuna possibilità di poter scappare. Un episodio marginale ma che fa capire l’atmosfera di terrore che c’era già in questa fase: facemmo pochissimi chilometri ed arrivammo a Prima Porta, a pochi chilometri dal centro della città, lì fecero fermare i camion su questa piazza che c’è a Prima Porta. Mi ricordo che c’è una rupe, su questa rupe c’è una lapide che non mi ricordo più neppure cosa ricordi. Ci fecero scendere dai camion e urlarono degli ordini nel tedesco urlato, non parlato, urlato che nessuno di noi capiva. Perché chi è che capiva il tedesco? Ora, noi avevamo saputo nel carcere di Regina Coeli, a parte che era stato pubblicato anche sui giornali, non si sapeva ancora dove e come, che pochi giorni prima c’era stato l’eccidio delle Fosse Ardeatine e molti dei detenuti, molti dei martiri delle Ardeatine erano stati presi proprio nel carcere di Regina Coeli e razziati per le strade, a via Tasso. A Regina Coeli si sapeva che c’era stato l’eccidio. Evidentemente qualcuno, qualche tedesco era rientrato dall’eccidio e aveva raccontato, quindi si sapeva esattamente cos’era successo. Quando ci fecero scendere con queste urla e con i calci del fucile dei mitragliatori ci ammassarono tutti sotto questa rupe, pensammo che fosse arrivato il momento della nostra fine. Abbiamo vissuto in quel momento quello che era successo qualche giorno prima con l’eccidio delle Ardeatine. Poi invece, qualcuno evidentemente aveva capito che cosa volevano. Volevano che soddisfacessimo i nostri bisogni corporali perché dovevamo viaggiare tutta la notte e non ci saremmo più fermati. E ne ridemmo addirittura noi, forse un convulso più che un riso e dicemmo “Ci siamo preoccupati per niente”. Ma tutti noi, tutti in quel momento abbiamo visto la morte. Quella è stata là prima sensazione molto forte. Insomma è stato un susseguirsi di emozioni, naturalmente ci sono certe che si ricordano in modo particolare.

Viaggiammo tutta la notte. La mattina dopo arrivammo a Siena, subimmo un bombardamento e un prigioniero, proprio perché fummo fatti scendere dai camion e messi sotto i camion, riuscì a scappare. Ci dissero subito che se si fosse verificata ancora una cosa del genere dieci prigionieri sarebbero stati fucilati sul posto. Però non successe niente di questo.

 

Fossoli

Ci misero in una caserma, la sera ci fecero risalire sui camion, viaggiammo tutta la notte e parte della mattina dopo ed arrivammo al campo di Fossoli. Fossoli era un campo di concentramento per i prigionieri di guerra che invece poi era stato preso sotto la giurisdizione dei tedeschi. Ebrei e non ebrei che venivano arrestati e che dovevano essere inviati in Germania venivano mandati a Fossoli. II campo degli ebrei era separato da quello dei non ebrei dal filo spinato.

Dopo qualche giorno che stavamo a Fossoli avvenne un fatto terribile, certo quello che è avvenuto dopo era ancora peggio di quello che è stato, però è una cosa che si ricorda. Entrò nel campo un tedesco, un soldato, urlando e naturalmente nessuno lo capiva. Noi eravamo nella fossa dove non si lavorava ed era una bella giornata. Stavamo tutti quanti in quella che era la piazza dell’appello, per lo meno eravamo molti gruppi che stavamo lì a parlare, ecc. Ad un certo punto questo tedesco tirò fuori la pistola e sparò ad un poveretto che stava vicino a lui. Fu la prima volta che vidi un uomo morire, non mi era mai capitato. Perché quel poveretto è morto, ricordo che lo conoscevamo tutti là, particolarmente poi tra i romani, si chiamava Pacifico Di Castro, un uomo di una trentina d’anni, non abbiamo mai saputo perché, però si diceva che, siccome ci avevano detto appena arrivati che quando noi incrociavamo un soldato delle SS, soldato semplice o graduato, comunque fosse dovevamo toglierci il cappello, sembra che questo poveretto non si fosse tolto il cappello e per questo è morto.

 

In treno

Poi il 17 maggio, noi eravamo arrivati il 12 aprile, fu fatto l’appello e ci dissero che dovevamo prepararci alla partenza. Ci dissero di fare rifornimento d’acqua ma non avevamo molti recipienti per l’acqua, comunque era tutto quello che avevamo. Come ci avevano consigliato, come ci avevano ordinato, riempimmo questi recipienti e ci portarono con dei camion alla stazione di Carpi che distava pochi chilometri. Fummo fatti salire su carri bestiame. Ora, era naturale che cercassimo di riunirci per gruppi

familiari, per stare tutti quanti insieme. Ma questo non era possibile. Con urla, bastonate, cercavano di farci salire sui carri bestiame così come arrivavamo; così noi salimmo, mi ricordo, sul carro insieme a mio nonno e mio padre che stava sempre vicino a me. Invece non poterono salire né mio zio né i miei fratelli, che salirono su altri carri.

Il treno rimase lì fino alla sera, i carri vennero chiusi dall’esterno e sigillati e soltanto la sera cominciò questo terribile viaggio verso l’ignoto. Era una cosa allucinante, pensate che noi, nel carro dov’eravamo, ed era un carro abbastanza grande, un carro ferroviario, eravamo in 64 persone. In altri ce n’erano 50, 45, il nostro era più brande degli altri, eravamo 64 persone dentro un carro. 64 persone dentro un carro non possono stare né sedute né sdraiate, bisognava stare in piedi, per lo meno molti dovevano stare in piedi. Tanto più che c’erano dei malati, c’erano delle persone anziane, mio nonno aveva 84 anni, ed erano loro che dovevano stare seduti nel carro, sdraiati, non potevano certo fare un viaggio di quel genere in piedi. Toccava a noi più giovani far posto agli altri e soltanto a turno poterci riposare per qualche momento. Era una cosa terribile, anche perché il treno si fermava a tutte le stazioni, tant’è che noi per arrivare alla stazione di Ora che sta in provincia di Bolzano, a circa 200 km, ci abbiamo impiegato due giorni. Poi, purtroppo, cominciò molto presto il dramma terribile della mancanza d’acqua. I primi che ne risentirono erano i bambini e i lattanti, le mamme che perdevano il latte. Fu una cosa terribile, perché il treno stava fermo per ore in una stazioncina, passava gente e quindi si cercava in tutti modi di attirare l’attenzione perché ci dessero l’acqua ma non c’era niente da fare. Pensate poi che cos’è un viaggio di questo genere dove un padre e una madre non possono fare niente per alleviare le sofferenze dei figli. Era l’inferno, era già cominciato l’inferno.

Comunque questo viaggio durò sei giorni, una fermata a ora per rifornimento d’acqua, sempre assolutamente insufficiente. Un’altra fermata a Monaco di Baviera dopo quattro giorni dove ci dettero, per fortuna, la possibilità di pulire i carri e ci dettero delle paglie da metterci dentro. Era la Croce Rossa tedesca che ci assisteva direi anche abbastanza umanamente. Ci dettero anche una zuppa calda. Però la Croce Rossa ha l’obbligo di segnalare alla Croce Rossa internazionale dove avvengono i passaggi di convogli carichi di bambini, malati e vecchi. Ma mai è arrivata alla Croce Rossa internazionale nessuna segnalazione, almeno così sembra e così si dice.

 

Auschwitz

La sera del sesto giorno arrivammo ad Auschwitz. Il treno sostò nella stazione di Auschwitz, la stazione della città, tutta la notte e la mattina successiva. Poi nel primo pomeriggio cominciò a muoversi il treno ed entrò nel campo di Birkenau. Il campo di Birkenau è sempre il campo di Auschwitz che è stato costruito per lo sterminio. Sta a circa 3 km dal campo principale, quello di Auschwitz. Questo era formato da vecchie caserme dell’esercito polacco, il campo di Birkenau era stato costruito dai prigionieri che erano stati deportati ad Auschwitz ed erano tutte baracche in legno, eccetto una piccola parte che era in muratura. All’interno del campo di Birkenau c’è una stazione con tre banchine che possono smistare tre convogli per volta e pensate che in quel periodo arrivavano ad Auschwitz un numero interminabile di convogli, sostavano fuori della stazione e poi entravano appena si liberava un binario, una banchina all’interno della stazione.

Aprirono i carri e credemmo di aver sofferto l’indicibile ma il peggio doveva ancora venire. Sempre con i bastoni alzati, pronti a menare botte a chi si attardava per qualsiasi motivo, con i cani che abbaiavano e che si slanciavano verso i prigionieri, cercavano di mettere ordine. A parte il fatto che noi non capivamo che cosa volessero perché nessuno riusciva a capire il tedesco. Era normale che avendo viaggiato a parte cercassimo i nostri cari. Mi ricordo che vedemmo prima i miei fratelli, mio zio e poi andammo alla ricerca di mia madre e mia sorella che trovammo e fu l’ultima volta che vidi mia madre. Mia madre piangeva, diceva “Non ci vediamo più”, volle darci la benedizione, poi disse “Andate” perché arrivavano delle SS con i bastoni alzati ed ebbe paura per noi, non per lei. Disse proprio “E’ finita”, aveva capito.

 

La selezione

Formarono due file e cominciò lì l’eccidio, una fila di uomini e una fila di donne.

Cominciò prima a muoversi la fila di donne. Davanti c’erano un gruppo di SS, di ufficiali e di semplici militari con un bastone alzato. C’era uno di questi che poi sapemmo essere Mengele, il capo dell’équipe medica di Auschwitz, che con un bastone, con un frustino indicava destra e sinistra, quelli che dovevano, potevano andare a lavorare e quelli che invece dovevano andare a morire. Le due file erano affiancate a distanze di pochi metri l’una dall’altra. Accaddero delle scene terribili perché particolarmente le donne avevano molte in braccio o per mano un bambino. Siccome le mamme erano giovani potevano andare a lavorare e cercavano di togliergli i bambini. E vedevi queste mamme che si disperavano, urlavano e piangevano, li rincorrevano e qualche volta riuscivano a prendere i loro bambini. Allora ripassavano davanti al medico del campo e mandavano madre e figlio, madre e piccolo, e piccoli, perché tante volte erano anche due o tre, dalla parte dei malati e degli anziani. Io dico anziani, chi aveva più di 45 anni andava tra gli anziani e non tra i giovani e non andava a lavorare. Poi la stessa cosa, io vidi lì mentre separavano mia madre da mia sorella, mia madre da una parte e mia sorella dall’altra; poi la stessa cosa per gli uomini, mio nonno e mio padre da una parte e noi giovani dall’altra. Entrando lì dalla stazione si vedevano dei fabbricati in muratura con delle ciminiere, noi pensammo che potessero essere le fabbriche dove avremmo dovuto lavorare. Da queste ciminiere usciva fumo, fumo e fiamme, ma fu un’illusione che durò molto poco, perché subito ci dissero che erano i forni crematori. Quelli che erano andati dall’altra parte uscivano dal campo con il fumo di quei camini orrendi, terribili.

 

L’immatricolazione

Ci portarono in un fabbricato, ci denudarono completamente, dovemmo lasciare tutti nostri abiti; non so quantotempo ma per ore siamo stati là, nudi, completamente nudi. In questa baracca ci fu fatta la depilazione completa, in qualsiasi parte del corpo vi fosse un capello, un pelo veniva rasato completamente a zero. Poi c’era un prigioniero che aveva un guanto di iuta, lo immergeva nel secchio dove c’era, credo, della creolina, disinfettante e ce la passava per tutte le parti del corpo, era una cosa terribile. Poi c’era l’immatricolazione, ci veniva assegnato un numero, questo numero ci veniva tatuato sul braccio sinistro e ci dissero subito che il nostro nome non esisteva più. II nostro nome era quel numero. Non era facile imparare il numero in tedesco senza capire una parola di tedesco; eravamo tutti molto preoccupati, ognuno cercava di chiedere, di domandare come si dicesse. Era una confusione davvero infernale. Ci vennero dati degli stracci da indossare, erano delle casacche, pantaloni a righe, come avrete visto nel film di Benigni “La vita è bella”. Quando ci consegnarono quegli stracci bisognava prenderli così com’erano, quindi magari una persona alta e grossa prendeva una misura che non gli entrava e viceversa. Allora avvenivano gli scambi tra noi che eravamo lì. Eravamo ormai distrutti, la stanchezza dei sette giorni di viaggio, le emozioni, il pensiero di quello che era successo ai nostri familiari. Eravamo in uno stato di completa confusione, confusione anche mentale. Comunque finito tutto questo che è durato qualche ora, nel pieno della notte ci accompagnarono nella nostra baracca. Entrammo nella baracca e dopo poco che eravamo lì, dopo forse un paio d’ore, non più di due ore, due ore e mezza, suonò la sveglia. La sveglia veniva data, era un tubo d’acciaio di un diametro di circa 10 cm appeso che veniva percosso con un bastone d’acciaio. Faceva un rumore terribile perché acciaio contro acciaio, questo tubo vuoto, percosso da questo bastone pieno d’acciaio, non c’era possibilità di non rimanere svegli. Contemporaneamente i capo entravano nella baracca e cominciavano a urlare, quell’urlo terribile; è stato un po’ un incubo per parecchio tempo anche dopo che sono tornato, e non solo a me ma anche ad altri, e con un bastone alzato contro chiunque si attardava per un istante e non scendeva subito dal giaciglio.

 

Il lavoro

Il lavoro ad Auschwitz… io vi dico subito, quello che vi sto raccontando del lager non sono le cose straordinarie, diciamo che è la quotidianità del campo, cioè non vi racconto l’orrore, certe cose a cui purtroppo io ho dovuto assistere. Non mi piace l’orrore, io spero che riusciate a capire che cos’era il lager anche attraverso quello che succedeva comunemente tutti i giorni. Però vi posso dire che accadevano le cose più terribili. Comunque, l’avvio del lavoro, venni chiamato a far parte di un commando che si chiamava Kenisgrabben. Poiché Auschwitz sorge su una zona umida quando ci sono precipitazioni si allaga tutto; noi dovevamo scavare dei canali in modo che l’acqua quando pioveva potesse fluire. Un lavoro terribile perché cominciava a far caldo. Io sono arrivato il 24 maggio e stava cominciando l’estate, cominciava a far caldo; dovevamo lavorare sotto il sole, fare un lavoro fra l’altro di fatica, di braccia, di cose che non avevo mai fatto, al quale nessuno di noi era preparato; e poi scavare questi canali con delle vanghe, delle zappe, dei picconi, farlo per 8 9 10 ore durante la giornata, una cosa assolutamente terribile soprattutto per chi non era abituato. E la sete, non ci veniva fatto il rifornimento d’acqua, lavorando così c’era il pericolo di rimanere disidratati. Però quelli più anziani, cioè quelli che erano lì prima di noi, ci avevano insegnato un sistema, cioè nella parte dello scavo che andavamo facendo infilavamo una canna, sotto la canna mettevamo una ciotola, dentro la quale scendeva, attraverso questa canna, goccia a goccia della fanghiglia ed era quello che bevevamo. Era l’unico mezzo per non morire, però malgrado questo, non soltanto per la sete naturalmente, c’era tanta gente che non ce la faceva o per le percosse o perché stava male, ecc. Non erano pochi quelli che rimanevano là, allora la sera ritornando al campo dovevamo caricarli sulle barelle, portarli a spalla, farli entrare nel campo, andare all’appello, allineare questi corpi al lato della fila in modo che quando venivano a fare l’appello fossero tutti contati, e se il conto non tornava ancora l’appello poteva durare anche delle ore, cioè tante persone erano uscite, tanti non uomini, perché purtroppo neppure ci chiamavano uomini, i tedeschi ci chiamavano stuke cioè pezzi. Quando venivano a contarci per l’appello ed eravamo solo 500, ci dicevano 500 stuke e segnavano 500 stuke. Praticamente non eravamo più allo stato di persone, non eravamo niente, eravamo soltanto gente che era lì in attesa di morire e basta, perché sapevano perfettamente che da lì vivi non si poteva uscire.

Ai primi del giugno `44, cominciarono ad affluire ad Auschwitz i trasporti che venivano dall’Ungheria. Gli ebrei ungheresi erano stati concentrati in ghetti in Ungheria, vivevano là in questi ghetti, mentre la deportazione in Italia era iniziata nell’ottobre del 1943, nel giugno 1944 gli ungheresi stavano ancora in Ungheria, cioè nei campi o ghetti, lì dov’erano nati. Decisero di portarli ad Auschwitz anche a loro e quando arrivarono questi trasporti erano 400.000 ungheresi. Una sia pur piccola parte di questi dovevano entrare nel campo e allora il posto per quelli che dovevano entrare doveva essere lasciato da quelli che già c’erano.