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PAOLO BONACINI, Brigata Katiuscia, Mirabilia editore, Reggio Emilia 2010, pp. 294, 18,00 euro

Nella sua terza avventura Corrado Grisendi, il giornalista protagonista di altre narrazioni di Bonacini, si deve confrontare con Reggio Emilia, una città che non conosce e che inizia ad «imparare» attraverso un piccolo caso di cronaca, legato ad un passato lontano nel tempo, le vicende della lotta di liberazione nelle campagne del forese cittadino.

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Rispecchiando vicende degli ultimi anni, Bonacini conduce il suo personaggio a riscoprire l’umanità di una generazione che dovette confrontarsi con la durezza e le atrocità di una guerra anche civile, una guerra che non finì all’improvviso con l’arrivo degli alleati e la conquista delle città da parte delle brigate partigiane ma che ha continuato a lasciare tracce nascoste ma profonde nei tanti protagonisti del tempo. Oltre sessant’anni dopo quei giovani, quelli rimasti, sono anziani, soli, quasi perduti in una campagna mutata radicalmente ma ancora portatori di quei dolori, di quelle speranze deluse, di rimorsi e sentimenti forse mai confessati. Come ripercorrere quelle vite, come rispettare quei sentimenti sembra essere il problema che Bonacini pone al suo protagonista, in una società dove i mass media sembrano cercare solo lo scoop, la notizia clamorosa, la polemica usa e getta in chiave politica, poco importa se questo comporta lo stravolgimento non solo delle sensibilità personali ma della stessa vicenda storica, riscritta ogni volta a seconda delle necessità.

In una vicenda dove la storia si lega alla cronaca (una croce piantata per ricordare un fascista ucciso e la ricerca della salma) Brigata Katiuscia ripercorre la realtà di una banda partigiana, dei suoi membri, dei sentimenti, della violenza di quei venti mesi di lotta, diventata una «storia che non passa» e che un giovane dei giorni nostri si trova ad affrontare senza adeguati strumenti storici e culturali. L’incontro con i due giovani del ’45, che la vita e le atrocità subite ha diviso, Tom e Neve, spinge ad una riflessione che può essere declinata su più percorsi. Il primo è quello immediatamente storico: come ricostruire le vite degli altri senza esserne direttamente coinvolti, non solo a livello professionale ma, soprattutto, umano. Parafrasando un ormai consunto slogan legato proprio alle grottesche vicende reggiane degli anni ’90, l’autore esorta a un «chi non sa taccia», come comprendere i fatti senza leggere la storia nella sua interezza e complessità? Come costituire tribunali volanti sui media chiamando alla sbarra persone di cui, in realtà, i giudici di turno non sanno nulla?

Ma anche dal punto di vista di chi opera nei media il romanzo pone un interrogativo non secondario: fino a che punto essere il semplice tramite di notizie, raccolte con le approssimazioni appena accennate, e non intervenire con la propria coscienza e valutazione, mettendo al primo posto il rispetto delle storie personali, magari a scapito della «verità» o del titolo di prima pagina da offrire a un pubblico sempre meno attento e informato?

Questioni di metodo, si direbbe, ma anche questioni di cuore quando Bonacini ci conduce con delicatezza e quasi pudore alla scoperta di un amore fra quei giovani di allora, oggi anziani, un amore interrotto ma mai sopito, un amore fatto di silenzio e di ricordi, un amore che la violenza e il rimorso ha reso impossibile, decidendo delle vite di Tom e Neve ma che continua ad unirli in modo sotterraneo, un sentimento al quale sarà proprio il giornalista protagonista della vicenda ad offrire l’ultima possibilità.

Brigata Katiuscia esplora i terreni della narrazione storica ricordandoci quanto la Resistenza abbia inciso nelle vite di un’intera generazione ma anche come, sotto il profilo narrativo e mitopoietico, essa rappresenti un’occasione parzialmente perduta nella costruzione di un epos popolare in grado di superare la monumentalizzazione che tanti danni ha fatto alla trasmissione dei suoi valori. La Resistenza avrebbe potuto essere per vicende e ricchezza di umanità, nell’immaginario popolare, quello che l’epopea del FarWest è stato per gli Stati Uniti, la complessità della vicenda politica italiana lo ha impedito. Raccontare le debolezze, la dolorosa umanità di quella generazione consente, seppur sessant’anni dopo, di recuperare qualche misura di consapevolezza di quella vicenda, riportando gli «eroi» alla loro quotidianità, di ragazzi allora, di anziani oggi.

Massimo Storchi