L. Baldissara (a cura di), Tempi di conflitti, tempi di crisi. Contesti e pratiche del conflitto sociale a Reggio Emilia nei «lunghi anni Settanta», L’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma, 2008, pp. 571, 30 €

Il volume che raccoglie gli esiti di una ricerca promossa dal Centro Studi R60 affronta il problema di una lettura storiografica degli anni Settanta, letti attraverso l’osservatorio reggiano, osservatorio privilegiato per la ricchezza e la complessità dei fenomeni politici e sociali che in quegli anni seppero esprimersi proprio nella nostra provincia. Un decennio di grandi movimenti sociali, di trasformazioni antropologiche e anche, purtroppo, di un’esplosione della violenza politica che ebbe proprio nel nostro territorio uno dei suoi punti di elaborazione ed avvio. Gli anni Settanta letti come come frattura cronologica, segnata dalla crisi del modello capitalistico e dalla crisi della politica incapace di dare risposte adeguate alle istanze di partecipazione innescate dalle lotte studentesche ed operaie.

Un periodo di grande dinamicità per affrontare il quale, come Baldissara suggerisce nella introduzione (corredata anche da una «bussola bibliografica» di grande utilità), è necessario «volgere lo sguardo a quegli anni come a delle rapide, attraverso le quali lo scorrere dei processi storici viene repentinamente accelerato, e dove la pendenza e la velocità imprimono un vorticoso rimescolamento ai fenomeni sociali e politici, alle dinamiche economiche ed istituzionali, provocando il precipitare di quei processi verso esiti poco prima ancora inaspettati e inimmaginabili, aprendo nuovi scenari e mutando i fondamenti su cui poggia l’ordine della società».

Ma la lettura che le varie ricerche propongono assume una dimensione necessariamente allargata, per approfondire il periodo in questione anche alla luce di un percorso avviato nel dopoguerra e che trova nella svolta del 1959 il suo punto di accelerazione quando il pci con la Conferenza regionale, che segnò l’adesione, pur in sensibile ritardo, alle posizioni dell’VIII Congresso nazionale del 1956, accettò di governare lo sviluppo, la «grande trasformazione», non solo tramite quel corporativismo municipale che si esprimeva in promozione localistica e protezione comunitaria ma perché si capì subito (o quasi) che la crescita economica era nello stesso tempo la precondizione necessaria dell’emancipazione delle classi popolari e il tramite di avvicinamento tra classe operaia e ceti medi. Una scelta che riesce a conciliare l’identità comunista con la modernità dirompente, riuscendo a costruire quel «modello emiliano» che, non a caso viene proposto come esempio/alternativa ad una crescita che produca lacerazioni, fratture e ingiustizie sociali.

La ricerca si snoda attraverso tre grandi filoni tematici (economia e società, sindacato e istituzioni, politica e culture) che riescono ad attraversare gran parte dei fenomeni che la provincia reggiana seppe esprimere in quegli anni in termini di innovazione e capacità di progetto, dalla ristrutturazione industriale allo sviluppo della piccola impresa, dalla centralità del «comune democratico» alla crisi economica e i ritardi del sindacato, dalla militanza nella stagione dei movimenti alla elaborazione di innovative politiche culturali in sintonia con quanto di più avanzato si stava producendo nell’effervescente scenario internazionale.

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