«Un libro voluto dalle donne, che parla di donne e raccontato da donne»: così può essere sintetizzata questa esperienza di ricostruzione storica dell’attività del «movimento delle donne» negli anni Settanta a Reggio Emilia. Già questa soluzione definitoria individua il limite dell’opera “Creatrici di Storia. Il movimento delle donne reggiane degli anni Settanta nel ricordo di alcune protagoniste” di Anna Appari ed Elisabetta Salvini: espressione di singole, seppur qualificate, voci, ma non dell’intera realtà interessata; megafono di proposte genere nell’azione e nelle interpretazioni memoriali di alcune protagoniste. Di questo limite si avverte costantemente la presenza, rivelato dall’uso prevalente dell’io narrante, quasi che la Storia della collettività locale e nazionale fosse racchiusa nell’esperienza di ogni persona. È pur vero che sull’attività del femminismo (termine abusato per indicare una partizione di genere, non certo parità e uguaglianza dei sessi) non esistono molti documenti, e le fonti sono soprattutto orali. Tanto che Nadia Caiti s’era dedicata a intervistare persone che avevano partecipato alle vicende politiche degli anni Settanta, e più in generale al dopoguerra reggiano. Supplendo così a scarsità di fonti e lottando contro lo svanire – anche per motivi anagrafici – dei ricordi. Di questo va dato merito a Nadia Caiti, come ha fatto Elisabetta Salvini e come risulta da altre «storie» che in questi anni si sono avvalse della sua opera di raccolta e catalogazione.

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Meritoria è anche l’azione di supporto che il Comune di Reggio Emilia ha fornito, unitamente alla Fondazione «Manodori», per la pubblicazione del volume. Sarebbe opportuno che tali attenzioni fossero spese con maggior ampiezza, secondo un piano preordinato di valorizzazione e di divulgazione di opere dedicate al territorio e ai suoi figli migliori. Ma questo è un tema che meriterebbe altre trattazioni, involgendo temi e modi d’approccio che paiono non essere nel DNA della gestione della cosa pubblica, quindi di tutti i cittadini.

Due, in sostanza, sono i contributi su cui si basa la ricerca: quello di Elisabetta Salvini che affronta il difficile rapporto con l’UDI e il PCI: fu scelta una strada «assolutamente intimistica e il più lontano possibile dalle istituzioni politiche che, al contrario, vennero rinnegate e duramente criticate»; l’altro di Anna Appari che incentra la sua attenzione sulla nascita e sul funzionamento dei consultori femminili.
Il contributo di Elisabetta Salvini, invero, è il più consistente, quanto a entità e a temi affrontati: essa infatti descrive l’approdo e il consolidarsi di iniziative femministe a Reggio Emilia, attraverso i collettivi, l’autocoscienza e l’autodeterminazione. Ma, recuperando i materiali di Nadia Caiti, effettua anche una panoramica coinvolgente sulla
partecipazione delle donne all’attività sindacale, attraverso i coordinamenti intercategoriali.
Ed offre alle protagoniste citate una meritata ribalta, inducendo a riflettere sulla consistenza di un fenomeno di cui, oggi, si è forse persa coscienza. Il volume, che reca la presentazione di Natalia Maramotti, propone un’intrigante prefazione di Daniela Brancati la quale, dopo aver descritto la sua partecipazione ai movimenti femministi, riconoscendone limiti ed errori, consegna alle nuove generazioni la convinzione di aver fatto qualcosa per cui valeva la pena di vivere. Ed offre una giustificazione a chi crede che i ricordi sovvertano la storia, «raccontandone una più vera e più palpitante».
Il volume riporta anche le immagini di una manifestazione pubblica che il 13 aprile 1976 le donne dell’UDI e dei collettivi femministi organizzarono per contrastare l’approvazione di una legge che prevedeva ancora l’aborto come reato. Laura Artioli offre, inoltre, una riflessione avvincente sul suo coinvolgimento nella breve stagione del femminismo e sulla scarsa considerazione che pare caratterizzare la presenza delle donne nella conclamata conquista di pari opportunità nella politica. Ingenuo e acerbo l’impianto grafico del volume.

Carlo Pellacani