A sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, il dibattito sull’interpretazione dei drammatici avvenimenti che hanno contraddistinto i venti mesi compresi tra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la fine dell’aprile 1945 è ancora vivo: fu lotta di liberazione, guerra civile, scontro di classe? Una fonte autentica per sapere che cosa muoveva gli animi dei combattenti della Resistenza è costituita dai messaggi indirizzati ai familiari nell’imminenza dell’esecuzione o durante il penoso trasferimento verso i campi di sterminio del Reich contenuti in “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della resistenza, 1943-1945”, di Mimmo Franzinelli, edito da Mondadori.

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Questo libro raccoglie le lettere di cento partigiani trucidati dai fascisti o dai tedeschi e di quaranta tra oppositori politici ed ebrei stroncati dalla deportazione.
Il volume si situa a più di cinquant’anni di distanza dalle celebri Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, curate da Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli per l’editore Einaudi, nel 1952. Da un lato, rispetto al classico einaudiano, il volume di Franzinelli si pone in una prospettiva di integrazione per ciò che concerne la scelta del materiale documentario: accanto a novanta lettere di fucilati, infatti, vengono prese in considerazione sia la categoria dei deportati nei lager tedeschi per motivi razziali e politici, sia quella dei testamenti spirituali – rispettivamente con quaranta e dieci testi, per un totale di centoquaranta documenti. Si trova poi in questi messaggi, in queste lettere prevalentemente di giovani; figli, mariti, fidanzati, che si rivolgono alla madre, alla fidanzata, alla moglie, ai figli, una scrupolosissima attenzione filologica che accompagna la selezione e la riproduzione dei testi, affrontate sistematicamente a partire non da successive trascrizioni, spesso viziate da alterazioni e imprecisioni di diversa natura, ma dagli esemplari originali: ciò mantenendo gli eventuali, frequenti errori di grammatica e di sintassi che vi compaiono, i quali possono derivare tanto da una scarsa frequentazione del condannato con la scrittura, quanto dagli effetti fisici della tortura o dallo sgomento provato a poche ore dalla morte. La scelta dei documenti ha cercato un’equilibrata rappresentazione delle classi sociali impegnate nel movimento di resistenza: preponderanza di contadini e operai, quindi impiegati, studenti, artigiani, militari, intellettuali (per quanto riguarda l’età, si va dai 16 ai 25 anni per due terzi dei trucidati presi in esame). Inoltre, l’indagine sui profili biografici dei morituri – volta alla preparazione delle schede personali che il curatore ha meritoriamente affiancato a ciascuna lettera – ha osservato sempre criteri impostati alla massima trasparenza e completezza. Chi sfogli questo volume trarrà, probabilmente, una sensazione di omogeneità: centoquaranta profili biografici suddivisi in quattro sezioni, con le foto degli autori, come se ad ogni condannato a morte o internato in un lager venisse offerta la possibilità di un’ultima lettera, di un commiato: in realtà diverse migliaia di partigiani e di civili sono stati uccisi senza poter rivolgere l’estremo saluto ai familiari e i loro corpi dispersi, vivi solo nel ricordo dei loro cari.
Si è discusso e si discute pretestuosamente di equiparazioni e riconciliazioni.
Simili discorsi – ovviamente neppure pensabili altrove in Europa – cesserebbero di avere statuto nel dibattito pubblico della nostra nazione, se solo si tornasse a prestare ascolto alle voci, irriducibilmente contrastanti, di coloro che si vorrebbe equiparare e riconciliare. In questo senso il libro di Franzinelli ci induce a un «ritorno alle fonti» quanto mai salutare: è un libro che ha inteso accettare, prima di altre, la «sfida contro l’oblio» e che esce in segno di «dolorosa riconoscenza» nei confronti «di chi è stato ucciso per essersi opposto alla dittatura fascista e all’occupazione nazista». È illuminante il confronto – sostenuto da numerosi esempi empirici – che il curatore propone, nell’Introduzione, fra le ultime lettere dei caduti della Resistenza e quelle di chi è morto combattendo nelle file della Repubblica sociale. I secondi in cui riuscivano a scrivere ai propri cari piuttosto regolarmente; il messaggio essenziale che comunicavano era la loro permanenza in vita tra un’azione di guerra e l’altra. I primi non scrivevano per non mettere parenti e amici a rischio di ritorsione; quando lo facevano – ammesso che fosse dato loro il permesso, cosa nient’affatto scontata – era per trasmettere la notizia della loro morte imminente. Terreno comune, negli epistolari dei due schieramenti, si riscontra solo nella dimensione privata del lutto, nel dolore che pervade il congedo dai parenti e dalle persone amate: il dato affettivo è quello dominante in entrambi i casi, come ripetute sono anche le espressioni di fede religiosa.
I messaggi più toccanti sono quelli rivolti ai figli, sia dai condannati a morte che dai deportati; alcune lettere dovranno attendere anni prima di essere lette e comprese dal destinatario. L’ultima lettera rappresenta una prova molto dura per il condannato, una sfida con se stesso per trovare il coraggio di staccarsi da tutti gli affetti, per togliersi dalla mente l’idea di un futuro, per sé. Il messaggio che ci viene oggi dalla lettura di queste lettere pone degli interrogativi morali di grande spessore: anche se l’attuale società non ha nulla in comune con quella contro cui gli scriventi si sono ribellati; cosa abbiamo fatto della società che ci hanno affidato? Cosa abbiamo fatto del loro ideale di solidarietà? Che significato abbiamo dato alla loro morte?

Lella Vinsani

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