“Scuola, intellettuali e identità nazionale nel pensiero di Antonio Gramsci”, a cura di Lorenzo Capitani e Roberto Villa, Gamberetti Editrice, 1999.

A quasi vent’anni dal convegno “Scuola Intellettuali e Identità  Nazionale nel pensiero di Antonio Gramsci” – svoltosi a Reggio Emilia 1’11 dicembre 1997, nell’ambito delle celebrazioni del bicentenario del Tricolore – la pubblicazione degli atti, importante contributo allo studio e alla riflessione del pensiero di Gramsci sui temi dell’ educazione e della pedagogia, offre l’opportunità di meditare sullo stato e sulle prospettive della cultura laica misurata attraverso la sfida che, almeno in Occidente, la “società dell’informazione” ha lanciato nei confronti della “società dell’apprendimento”.

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Il volume ospita, oltre alla prefazione di Renato Zangheri e all’introduzione dei curatori Lorenzo Capitani e Roberto Villa, i saggi di Giulio Ferroni, Giorgio Baratta, Joseph Buttigieg, Mario Alighiero Manacorda, Fabio Frosini, Giano Accame e Dario Ragazzini. Un’intelligente appendice raccoglie una breve antologia di testi gramsciani sul tema della scuola e della cultura. La scuola oggi è percorsa al suo interno dalle riforme introdotte dal ministro Berlinguer e all’esterno dalla richiesta avanzata dai privati (ma leggasi cattolici) di accedere al finanziamento pubblico. Quindi una scuola pubblica e una privata. In questa sede, non intendo entrare nel merito della questione, pur ritenendo che di scuola privata non ce ne sia un gran bisogno, ma lasciare spazio alle problematiche di contenuto e di metodo che gli interventi ospitati nel libro sollevano in merito alla ‘natura’ che dovrebbe avere la scuola per istruire e formare i giovani. Nella pagina precedente: testo autografo di Antonio Gramsci.

La ‘questione scuola’ sottende tutta un’altra serie di problemi il primo dei quali risponde alla domanda “Quale democrazia?”. L’organizzazione scolastica, forzando un po’, è lo specchio dei «rapporti sociali di produzione» sia intellettuali sia materiali. Oggi, a esempio, è richiesta essenzialmente la conoscenza dell’inglese e dell’informatica. In questo senso si muove il saggio di Joseph Buttigieg che, dopo aver illustrato il dibattito sviluppatosi, a partire dagli anni ottanta, intorno alla formazione degli intellettuali negli Stati Uniti,scrive:

«L’attuale sistema educativo continua a educare i pochi a diventare i dirigenti (i leader) del futuro e i molti, cioè la stragrande maggioranza a diventare lavoratori efficienti e produttivi. È vero che molti lavoratori nel mondo moderno e postmoderno sono in un certo modo dei “professionisti” – cioè hanno ottenuto da qualche istituzione scolastica una qualifica o un diploma – ma questa è una parodia del vero senso dell’educazione. Oggi le stesse università sono diventate in gran parte delle scuole professionali. Che cosa significa questo per la democrazia?» (p. 72). Subito dopo cita un famoso passo di Gramsci: «Il moltiplicarsi di tipi scuola professionale tende ad eternare le differenze tradizionali, ma siccome; in queste differenze tende a suscitare stratificazioni interne, ecco che fa nascere l’impressione

di una tendenza democratica (…. ). Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente, nelle condizioni di poterlo diventare (Q. XII, p. 1547)».

Questo è il filo rosso che percorre il volume (eccezione fatta per l’intervento di Accame rivolto alle ricerca delle origini gentiliane delpensiero di Gramsci) e che rimanda all’incipit del convegno: «La lotta contro la vecchia scuola era giusta, ma la riforma non era così semplice come pareva, non si trattava di schemi programmatici ma di uomini, e non degli uomini che immediatamente sono maestri, ma di tutto il complesso sociale di cui gli uomini sono espressione», incipit che viene così motivato dai curatori nella loro introduzione:

«Noi crediamo che la questione della scuola – se si vuole trovare una qualche realistica possibilità di soluzione – debba assumere, anche attraverso queste suggestioni, una dimensione essenzialmente culturale e politica, reclami cioè un’analisi critica serrata intorno al ruolo degli intellettuali e della progettualità politica, ben oltre i tecnicismi o i pedagogismi» (p.l9).

Queste indicazioni sono raccolte dai vari autori che riflettono sui “luoghi” . gramsciani quali intellettuale tradizionale e intellettuale organico, Rinascimento e Riforma, Stato e società civile, Americanismo efordismo, ecc., e individuano nel rapporto egemonia/consenso il nucleo centrale della riflessione gramsciana, sottolineando che ogni rapporto egemonico è un rapporto pedagogico. Da qui perciò la riflessione del Sardo sulla necessità di una scuola educativa e formativa alla base della quale porre un «’nuovo umanesimo’ legato allo sviluppo delle forze produttive. Dichiara infatti: “Bisognerà sostituire il greco e il latino come fulcro formativo della nuova scuola”. E accenna una prima definizione in un internum mentis che “dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza” o piuttosto che muove dalla “storia della scienza e della tecnica come base dell’educazione formativo storica della nuova scuola”» (Manacorda, p. -87). Che, semplificando, l’ «uomo nuovo» o moderno si potrebbe individuare nella figura di Leonardo, in una sintesi leonardesca dell’ingegnere americano, del filosofo tedesco e del politico francese «ovvero una sintesi reinterpretante della tecnica avanzata, del giacobinismo rivoluzionario e del marxismo» (Ragazzini, p. 121).

Filtrato da Ferroni l’intellettuale organico gramsciano diventa a partire dalla scuola l’intellettuale ecologico e civile «capace di coniugare appartenenza ed universalità, di condurre azioni responsabili per l’equilibrio della natura e della società, per il giusto scambio tra i soggetti del villaggio globale» (p. 26).

La realtà “post-fordista” determinata dalla società del non-lavoro può diventare in una cultura dell’economia un alleato del lavoro. «La “società dell’informazione” – scrive Baratta – può venir completata, arricchita e trasformata da una “società dell’apprendimento”. Potrebbe trovarsi qui tutto il disegno di novità e di civiltà – il sogno – contenuto nel processo-progetto di formazione di una cittadinanza europea» (p. 45). Allora, seguendo il ragionamento dello studioso – in contraddittorio con l’analisi di Trentin contenuta nel libro “La città del Lavoro. Sinistra e crisi del fordismo”, (Milano, 1997) – la flessibilità, concetto fatto proprio dalla “società dell’informazione” che lo restituisce al senso comune sotto forma di ‘folclore della filosofia’ (per dirla con Gramsci), necessiterebbe un’indagine approfondita capace di separare «per poterne studiare il nesso, il materiale dal culturale, l’empirico dall’ideologico». Che cosa c’è di più flessibile – si chiede lo studioso – di un «Leonardo da Vinci … divenuto uomo-massa?»

Per concludere, si potrebbe suggellare l’importante contributo del volume a una comprensione più alta del ruolo della scuola nell’equilibrio e nello sviluppo sociale rimarcando quanto della riflessione gramsciana potrebbe concorrere alla costruzione di una scuola educativa e formativa in grado di «liberare dalle illusioni, di educare alla concretezza e alla resistenza del reale» (Ferroni, p. 36). Speriamo.