«Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga». (Primo Levi, Se questo è un uomo)

Parlare di comunità ebraiche in Europa significa correre con il pensiero a ciò che è stato e che non è più per una causa ben identificabile: la volontà omicida del nazismo, da esso amministrata con «scienza» una volta giunto al potere in Germania.

Il dilagare del nazismo in gran parte del continente, sia per l’adesione ideologica di alcuni sia attraverso il regime di occupazione militare instaurato con la forza, ha fatto della politica del massacro contro le comunità, per sfruttare sistematicamente territori e popolazioni assoggettate, il tratto caratterizzante la Seconda guerra mondiale. Ed è l’esperienza della guerra ad aver connotato le modalità di ricostruzione delle economie e di convivenza tra le nazioni negli anni seguenti.

Oggi la ridefinizione dell’identità sociale europea non sopporta silenzi o rimozioni e chiede l’assunzione per intero di quella memoria. Per ricomporre il «secolo spezzato» occorre praticare e diffondere una politica del riconoscimento.

Riconoscere significa volontà di ricordare la storia di ciascun soggetto e non rendere omaggio ad una generica entità collettiva.

Riconoscere significa rendere a noi comprensibili le ragioni o i torti di ognuno.

Riconoscere significa dare un nome e un cognome ad ogni vittima.

E’ un atto primario, perciò risulta tanto rilevante la ricostruzione con il metodo biografico dei quadri sociali della memoria, procedendo per identificazioni successive; viceversa, conciliare dimensioni fra loro altre è un processo di semplificazione identitaria che corrisponde ad una politica dell’occultamento.

Ed è solo prendendo coscienza della dimensione incomparabile del dramma di Auschwitz che possiamo riconoscerci in esso. La condizione dell’ebreo è così divenuta il paradigma della nostra contemporaneità, dove confliggono la logica dello sterminio di massa – biologico, etnico, culturale – e la capacità di resistenza del soggetto che vive, quand’anche gli sia negato il corpo, nella memoria cosmopolita delle generazioni che verranno.