Intervista raccolta nel 2019
Libia Italia
L’Italia repubblicana ha parzialmente rimosso il suo passato coloniale. Questo oblio, sfaccettato e difficile da cogliere nell’interezza delle sue conseguenze, ha innegabilmente impattato sulla coscienza pubblica e storica dei paesi coinvolti. Se ci soffermiamo sulla Libia, la questione storiografica trascolora nella cronaca, rendendo ancora più opache le radici lontane di fenomeni contemporanei. Da parte della società italiana, in particolare, ripercorrere il frammento di strada percorsa insieme, per quanto doloroso e imbarazzante, sarebbe forse un primo passo per capirsi meglio. Questo processo però richiede tempo e attenzione. Il punto di vista di queste brevi note è, ahimè, dunque parziale, perché adotta la prospettiva italiana, il che non significa negare il valore della profondità storica di questo paese, né delle sue attuali vicissitudini. Solo, ho dovuto scegliere un taglio: e questo è, con tutti i suoi limiti dichiarati.
Come ben sappiamo, il colonialismo italiano fu inaugurato dall’Italia liberale, a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento e si concentrò, in primo luogo, sulle coste del Corno d’Africa. Per lanciarsi alla conquista della Libia, altra entità politica creata dal colonialismo, bisognerà attendere il 1911, con la guerra per la supremazia sul “dolce suol d’amore” della propaganda dell’epoca. Queste terre erano di fatto bottino bellico, che l’Italia contendeva all’ormai inconsistente impero turco. Dall’anno successivo, gli abitanti della Cirenaica e della Tripolitania, le due maggiori regioni storiche, già impegnati a scacciare gli occupanti, vennero etichettati nella categoria “sudditi indigeni di Libia”, che conferiva loro alcuni diritti di rappresentanza. Solo nel 1919, invece, si arrivò, attraverso una complessa normativa, alla “cittadinanza coloniale in Tripolitania e Cirenaica” – mossa strategica, quest’ultima, per tentare di aumentare il consenso locale, sottraendo così forze alla resistenza contro gli italiani. I libici, infatti, potevano scegliere tra la cittadinanza italiana e quella coloniale. La resistenza libica, però, non fu ammansita da tali concessioni. Gli anni Venti, furono infatti scanditi da violenze brutali, campi di concentramento, deportazioni attuate dalle truppe italiane comandate dal maresciallo Graziani e dal governatore Badoglio. Il culmine della tristemente nota “pacificazione della Libia” fu raggiunto con la esecuzione pubblica di Omar al-Muktar, ispiratore politico-religioso e animatore della resistenza, nel settembre del 1931.
Con il 1927, frattanto, il regime fascista impresse una svolta nella politica di cittadinanza in Libia, oltre che nella teoria e nella prassi del colonialismo italiano, sempre maggiormente votato ad una prospettiva razzista. Venne infatti abolita l’uguaglianza formale davanti alla legge tra cittadini metropolitani e coloniali, sviluppando d’altronde una progressiva erosione dei diritti di questi ultimi ed una netta divaricazione tra i due status giuridici. A partire dagli anni trenta, quindi, migliaia di italiani tentarono la sorte in Libia, spinti dalle agevolazioni governative e dai miraggi di affermazione personale millantati dal regime in merito ai “territori d’oltremare”. Fu però Italo Balbo, governatore generale, nel 1938, a concepire un piano sistematico di trasferimento di intere famiglie contadine in Cirenaica e Tripolitania, alle quali venivano affidati appezzamenti di terra e vere e proprie fattorie – spesso aggregate in villaggi coloniali. Fu la seconda guerra mondiale a bloccare il processo di colonizzazione demografica della Libia: con l’occupazione della Cirenaica da parte inglese, gli italiani si ritirarono in Tripolitania.
Il trattato di Parigi, siglato il 10 febbraio 1947, impose all’Italia la rinuncia alle colonie. Il processo di decolonizzazione fu gestito dalle potenze vincitrici e dalle Nazioni Unite (per quanto dall’assemblea generale): gli africani non poterono decidere del loro futuro e non ebbero modo di rafforzare una coscienza politica della loro storia. Inutile negare, tuttavia, che, sin dal 1951, anno dell’indipendenza, furono sviluppati ottimi rapporti di partenariato tra repubblica italiana e regno senusside, in ambito economico e produttivo. Nonostante una legge del 1956 tutelasse la proprietà privata di tutti gli abitanti del paese, il processo di libicizzazione, promosso in quegli anni, ridusse di fatto il peso economico e politico degli italiani rimasti sulla “quarta sponda” (nel 1962, ancora 35 mila). Iniziò così una fase delicata per gli italiani di Libia, che cominciarono lentamente ad abbandonare il paese, sempre più emarginati dalla vita sociale e penalizzati nel mondo del lavoro.
Il colpo di stato di Muhammad Gheddafi, nel 1969, fu l’apice del clima ormai deteriorato tra italiani e arabi. La conseguente espulsione, l’anno successivo, di oltre 20 mila italiani, costretti a lasciare tutto ciò che li legava alla loro vita in Libia, segnò una svolta epocale per il paese nordafricano. Da parte libica, emerse una ricerca ossessiva di identità unitaria, mai davvero conquistata. Gheddafi puntò così sul nazionalismo per sopperire all’incompiutezza di tale processo. Gli italiani di Libia, una comunità non omogenea sul fronte sociale e politico, si trovarono così a tornare in un paese che non riconoscevano come il proprio e che spesso mai avevano davvero conosciuto. Molti di loro sperimentarono la durezza dei campi profughi, altri poterono contare sulle reti familiari che permisero loro di ricominciare una nuova esistenza nella penisola.