Intervista raccolta nel 2019
Nome
«Lei ha detto che viviamo in un tempo in cui nessuno può essere certo del nome di un’altra persona, nessuno sa più da dove qualcuno viene o dove stia andando. Solo quando si arriva in un luogo da dove non è più necessario fuggire, soltanto allora può rivelare il suo nome e il suo è Laurinda».
(H. Mankell, Le ragazze invisibili, Marsilio, 2017).
L’immaginario occidentale trova una delle proprie radici più salde nella storia di un uomo che disse di chiamarsi Nessuno. Un esule, un rifugiato, a tratti. Il nome che ci è attribuito alla nascita ci colloca nello spazio e nel tempo, può richiamare il passato – familiare o, inteso in un senso più generale, storico – oppure presentarsi come un auspicio per il futuro. Interessante rilevare che la manciata di suoni e lettere che per tutta la vita assoceremo alla nostra identità e a volte al suo rifiuto, non lo abbiamo scelto noi. Ecco allora che i nomi di persona portano con sé molteplici significati sociali e culturali, ancora una volta in bilico sul crinale tra soggettività e dimensione collettiva. Per i migranti, spesso, il rapporto con il proprio nome è quantomeno contraddittorio. Da un lato, esso richiama una “certa idea di sé” e la percezione di unità sulla quale si basa l’identità stessa dell’individuo e perciò può presentarsi quale prezioso appiglio per rivendicare il proprio vissuto, a maggior ragione in un contesto “altro” da quello del proprio paese. D’altronde, tuttavia, accade anche che il nome del migrante divenga un terreno di incomprensione con la cosiddetta società avvolgente. Una ricerca antropologica compiuta in Canada, ha dimostrato come la resistenza degli “stranieri” a modificare il proprio nome, per renderlo conforme agli schemi mentali della società di arrivo, sia una forma consapevole di ridistribuzione della responsabilità dell’accoglienza tra migranti e “locali”. Detto in altri termini: al di là di tante teorizzazioni del multiculturalismo, la ribellione dei primi al processo di addomesticamento dei loro nomi propri non è altro che un richiamo alla necessità di condividere, insieme alle comunità di arrivo, un processo di reciproco avvicinamento. In fondo, in questo paese, anche chi dice di accogliermi può imparare a pronunciare il mio nome.
Restando sulle strategie per così dire onomastiche dei migranti, spesso accade che il nome proprio sia volutamente affiancato o soppiantato da uno preso a prestito dalla società di arrivo. Attenzione: non si tratta semplicemente di volontà “mimetica” da parte del migrante rispetto a nuovi canoni sociali. In molte culture, specie in quelle nelle quali l’oralità svolge un ruolo sociale primario, il nome che viene attribuito al nuovo nato diventa tassello della memoria familiare e collettiva, trasmette valori, connette indissolubilmente il bambino ai suoi antenati, lo indirizza nel mondo. Da qui, a volte, la scelta di non “sprecarlo” in un contesto che non ne potrebbe cogliere le molteplici ricchezze.
Quanto sia essenziale il legame tra nome proprio e identità lo si può infine percepire, in maniera tragica, anche dalla pratica nazista di tatuare una serie di numeri sul braccio delle persone rinchiuse nei campi di sterminio. Applicazione questa, letteralmente ab-ominevole (ovvero opposta a ciò che vi è più propriamente umano), di una logica strettamente tecnica: la cancellazione della differenza e quindi della inimitabile unicità di ogni essere, attraverso l’utilizzo uniformante di un codice.